di Bill Mitchell
Il nuovo presidente della Commissione europea, Jean-Claude Juncker, è un federalista. Ha dichiarato che la sua priorità in veste di presidente sarà quella “di mettere al centro dell’agenda politica della prossima Commissione politiche che stimolino la crescita e l’occupazione”. In precedenza Juncker è stato primo ministro del Lussemburgo per molti anni e presidente dell’Eurogruppo (l’organo di coordinamento che riunisce i ministri dell’economia e delle finanze degli stati dell’eurozona) tra il 2005 e il 2013. Sia Juncker che l’Eurogruppo da lui presieduto hanno veementemente sostenuto le politiche di austerità. Inoltre, la settimana scorsa a un incontro dell’Alde, Juncker ha riaffermato la necessità di “continuare sulla strada dell’austerity”. Non dimentichiamoci che in fondo era pur sempre il candidato alla presidenza della Commissione sostenuto dalla Merkel!
Ora, con la nuova Commissione, si parla di introdurre una serie di innovazioni fiscali di carattere federale. Il problema è che in molti casi queste non sono altro che cortine fumogene di stampo neoliberista che contribuiranno ben poco a risolvere la crisi attuale.
Quali sono al momento le proposte sul tavolo? Una delle più discusse è l’introduzione di stabilizzatori automatici nel bilancio europeo, a partire da un assegno europeo di disoccupazione, proposta che pare trovi anche il favore di Renzi. Come si legge in un articolo apparso su Europa la settimana scorsa, “sette anni dopo la crisi finanziaria, l’economia europea fatica ancora a ripartire”, pertanto “una delle priorità dovrebbe essere l’introduzione di una garanzia paneuropea anti-disoccupazione”.
Sostiene l’autore dell’articolo:
Il dibattito politico è dominato dalla dicotomia “austerità vs. spesa”, il che alimenta lo scontento e la diffidenza nel continente. Questa dicotomia è però fuorviante.
I paesi che registrano livelli di debito pubblico molto alto, come l’Italia, non hanno alternative al pareggio di bilancio, ma l’integrazione europea non può progredire senza un ripensamento dell’attuale sistema di governance economica. La mancanza in Europa di strumenti fiscali adeguati ha condannato molti paesi del Sud Europa a una spirale economica molto negativa. L’assenza di misure ambiziose ex ante ha determinato ex post una recessione e dei costi sociali ed economici molto più gravi del necessario. L’Europa ha bisogno di nuovi strumenti fiscali che impediscano alle crisi cicliche di degenerare in spirali negative.
L’introduzione di un assegno europeo di disoccupazione per i paesi dell’eurozona agirebbe da stabilizzatore economico nel caso di crisi future.
Innanzitutto, notate l’uso delle parole: contrapporre l’idea di una maggiore spesa all’austerità è “fuorviante”. Le due cose a quanto pare non sono incompatibili, e l’austerità non preclude la spesa. È vero che in alcuni casi l’austerità fiscale a livello pubblico può essere compatibile con un aumento della spesa privata. Ma non è questo il caso dell’Europa, in cui l’austerità continua a minare la fiducia del settore privato.
La tesi dei neoliberisti moderati è che gli stabilizzatori automatici sono una spesa ed eliminano dunque il bisogno di interventi fiscali discrezionali. In sostanza, quando l’attività economica declina, le entrate diminuiscono e al contempo le spese di welfare aumentano; questo aumenta il disavanzo (o riduce l’avanzo) dello stato, il che rappresenta già di per sé uno “stimolo” per l’economia. La verità è che gli stabilizzatori automatici non fanno altro che attenuare l’impatto delle contrazioni della spesa privata sull’attività economica. Sostenere che gli stabilizzatori automatici costituiscono una risposta fiscale alla crisi e sono sufficienti a evitare una recessione è infondato. Una contrazione significativa della spesa non governativa richiede quasi sempre un adeguato stimolo fiscale di carattere discrezionale, oltre agli stabilizzatori automatici, per evitare impatti considerevoli in termini di crescita e di disoccupazione.
In secondo luogo, l’articolo omette il fatto che la Bce, se lo volesse, potrebbe offrire agli stati membri tutta la liquidità necessaria per stimolare la crescita. Il Securities Markets Programme (SMP) – il programma di acquisto sul mercato secondario dei bond avviato nel 2010 dalla Bce per cercare di frenare la speculazione dei mercati finanziari sui titoli sovrani – è la dimostrazione che una banca centrale ha sempre il potere di controllare i tassi di interesse. Ma in teoria la Bce potrebbe andare anche oltre: se il problema sono i livelli eccessivi di debito pubblico, la Bce potrebbe acquistare dagli stati membri tutto il debito pubblico che vuole e poi cancellarlo immediatamente dal proprio bilancio, eliminandolo per sempre. Poiché la Bce ha il potere di creare “dal nulla” – e in misura infinita – tutto il denaro che vuole, può acquistare qualunque asset denominato in euro.
È vero, come si dice nell’articolo, che “la mancanza in Europa di strumenti fiscali adeguati” a livello federale è una delle ragioni principali per cui la crisi nel continente si sta rivelando così profonda e duratura. Ma è altrettanto vero che l’ossessione per l’austerità avrebbe avuto conseguenze negative anche in presenza di una capacità fiscale a livello federale. Una cosa è avere la libertà di spendere tutti i soldi necessari per riequilibrare gli shock asimmetrici negativi tra le varie aree regionali di una federazione; un’altra cosa è saperla usare quella libertà. È vero anche che sono mancate “misure ambiziose ex ante”, ma la creazione di un assegno europeo di disoccupazione è tutt’altro che ambizioso. Pur agendo da stabilizzatore automatico, il suo impatto sulla spesa totale sarebbe molto inferiore alla risposta fiscale che sarebbe richiesta nell’attuale contesto.
La verità è che le varie proposte “federali” attualmente sul tavolo rimangono tutte saldamente ancorate al paradigma dell’austerità, nel senso che rappresentano dei palliativi per cercare di garantire la tenuta del sistema, senza però risolvere alla radice le vere cause della crisi: la mancanza di un’autorità fiscale pienamente funzionante e la tendenza alla prociclicità dovuta alle regole del Patto di stabilità e crescita.
Come incrementare gli stabilizzatori automatici all’interno dell’attuale sistema fiscale e di trasferimento sociale europeo
I cosiddetti “shock asimmetrici” (contrazioni della spesa che impattano in misura diversa le varie aree di un’unione monetaria) sono particolarmente dannosi per un’unione monetaria composta da economie relativamente eterogenee. Quando uno stato o una regione sono colpiti da una recessione particolarmente grave, gli investimenti diminuiscono mentre le vendite e il numero dei disoccupati aumentano, ed è difficile reperire nuovi capitali sui mercati perché questi migrano verso condizioni più redditizie.
Le asimmetrie economiche all’interno di un’unione monetaria evidenziano una delle carenze principali della politica monetaria: ossia il fatto che essa non può rispondere alle esigenze specifiche delle varie aree. Lo strumento usato più comunemente da una banca centrale per influenzare l’offerta di moneta è il tasso di interesse. Ma questo approccio stile “taglia unica per tutti” presenta numerosi problemi, ben evidenziati dalla situazione pre-crisi dell’eurozona. Nei primi anni 2000, i tassi di interesse della Bce erano indubbiamente troppo bassi per paesi come la Spagna e l’Irlanda, che stavano attraversando delle bolle edilizie insostenibili; ma un eventuale rialzo dei tassi avrebbe danneggiato negativamente paesi come la Germania e l’Olanda, che registravano tassi di crescita modesti. In questi casi, solo un aumento della spesa pubblica può offrire lo stimolo necessario per compensare la riduzione della domanda privata.
La domanda dunque è: qual è il mix adeguato di politiche fiscali in queste situazioni? La politica fiscale può prendere due forme: a) interventi discrezionali nei livelli di spesa e/o di tassazione; e b) gli stabilizzatori automatici, che rispondono – automaticamente, appunto – ai cambiamenti nell’attività economica: quando l’attività economica declina e la disoccupazione aumenta, le entrate diminuiscono e la spesa per la protezione sociale aumentano con essa, senza il bisogno di interventi discrezionali. Di positivo c’è il fatto che questo fa aumentare il deficit dello stato, offrendo un po’ di sollievo all’economia. Ma in tempi di recessione servono entrambe le forme di stimolo fiscale per evitare che la disoccupazione cresca oltremodo. Limitarsi unicamente agli stabilizzatori automatici aiuta a limitare la contrazione ma solitamente non rappresenta uno stimolo sufficiente a evitare che l’economia entri in recessione.
Un recente articolo di Manuel Müller nota che uno dei vantaggi principali degli stabilizzatori automatici “è che entrano in azione in virtù di regole stabilite in precedenza e senza la necessità di ulteriori decisioni politiche”. Ma l’architettura dell’eurozona è studiata proprio per ridurre l’efficacia di questi stabilizzatori. Come nota Müller, “il bilancio dell’Ue è troppo piccolo e i suoi meccanismi di trasferimento fiscale sono troppo rigidi per adattarsi ai cambiamenti nel ciclo economico”.
Nel 2013, la sezione tedesca dei Giovani federalisti europei ha proposto la creazione di un sussidio di disoccupazione europeo “che rimpiazzi in parte i sistemi di previdenza nazionali”. Si tratterebbe di fatto di uno “stabilizzatore automatico” a livello europeo che contribuirebbe a limitare (in parte) l’impatto degli shock asimmetrici sui singoli stati membri. I fautori di questa proposta sostengono che l’ammontare del sussidio “rimarrebbe sostanzialmente uguale” rispetto a quello attualmente previsto dai sistemi nazionali. In tal caso, però, il piano non aumenterebbe il reddito totale delle regioni in crisi e anzi rischierebbe di diminuirlo, soprattutto se si considera che “il sussidio offerto dai sistemi di previdenza nazionali è già più alto di quello previsto dal sussidio europeo”.
Inoltre, il sussidio sarebbe limitato a dodici mesi, per evitare “una redistribuzione fiscale permanente tra stati membri”. Ma le recessioni profonde (soprattutto quelle legate agli squilibri di bilancio), come dimostra la crisi europea, possono protrarsi per anni e richiedono un sostegno fiscale pubblico di lungo periodo in attesa che il settore privato riduca la sua leva finanziaria. Le federazioni di successo, come l’Australia, prevedono una redistribuzione costante delle entrate fiscali dagli stati più forti verso quelli più deboli. Il carattere non permanente della proposta tedesca rivela dunque la natura conservatrice e neoliberista della proposta.
Una proposta simile è stata avanzata nel 2012 dal cosiddetto “Gruppo Tommaso Padoa-Schioppa”. Anch’essa preveda la creazione di un sistema di “risposta ciclica” in Europa, ispirata al “principio di sussidiarietà”, che afferma che in una struttura federale le decisioni dovrebbe essere prese al livello più basso possibile. È uno dei princìpi cardine dell’Ue ed è addirittura formalizzato nel Trattato di Maastricht, ed è stato invocato in passato per giustificare la decisione di non creare un sistema fiscale federale. Ma il fatto è che in un sistema federale alcune funzioni devono essere necessariamente realizzate a livello aggregato perché il sistema nel suo complesso e suoi vari componenti funzionino efficacemente. Una di queste funzioni è una capacità fiscale in grado di compensare le fluttuazioni asimmetriche nei livelli di spesa privata. È impossibile che all’interno di un sistema federale i singoli stati possano conseguire il bene comune se a) non godono del sostegno di una banca centrale e b) gli vengono imposti limiti molti stringenti in termini di disavanzo pubblico.
Il “Gruppo Tomasso Padoa-Schioppa” definisce la sua proposta “una forma di federalismo fiscale sui generis” che parte dall’assunto secondo cui gli stati nazionali non hanno alcun interesse a devolvere la loro autonomia fiscale a Bruxelles. Ma è un’argomentazione poco convincente, visto che il Patto di stabilità e le misure di austerità degli ultimi anni hanno già seriamente compromesso la cosiddetta “autonomia fiscale” dei singoli paesi. Continuando, gli autori della proposta definiscono così i limiti della democrazia: “la sovranità finisce dove finisce la solvibilità”. È una dichiarazione che ha implicazioni pesanti, in quanto la sua applicazione porta necessariamente a una violazione della democrazia, in quanto il rischio di insolvibilità è intrinseco all’architettura dell’eurozona, in cui gli stati membri sono costretti a indebitarsi in una valuta che non controllano e la Bce ha il divieto formale di intervenire sui mercati sovrani. In un quadro di questo tipo, il rischio di insolvenza – e di dover consegnare le chiavi del proprio paese alla troika – è sempre dietro l’angolo.
L’approccio del Gruppo alle “divergenze cicliche” è di carattere tipicamente neoliberista: aumentare la mobilità dei lavoratori dalle regioni in crisi verso quelle più prospere e applicare una politica di svalutazioni salariale a quei lavoratori che rimangono indietro, senza preoccuparsi minimamente dell’impatto di tali politiche sulle strutture economiche e sociali dei paesi in crisi. Ma qualunque soluzione durevole alla crisi dell’eurozona non può prescindere dalla sopravvivenza economica delle varie regioni, incluse quelle più deboli. Non si può pensare di risolvere tutto con la mobilità del lavoro, che in Europa è comunque soggetta a barriere linguistiche e culturali non indifferenti.
Gli autori propongono inoltre la creazione di un “fondo di garanzia per l’aggiustamento ciclico”, gestito dai ministri delle finanze dell’eurozona e finanziato coi contributi di quei paesi che registrano tassi di crescita superiori alla media, ed elargito ai paesi in crisi “per ridurre la pressione sulle finanze pubbliche”. In sostanza, i paesi dovrebbero ridurre la spesa in tempi di crescita per poter accedere al fondo in tempi di crisi. Non si verifica alcun trasferimento fiscale in quanto i paesi “possono ricevere solo ciò che hanno contribuito in precedenza”.
Uno studio del 2012 dell’istituto Bruegel proponeva un sistema di trasferimento fiscale non dissimile, in cui i paesi riceverebbero dei fondi “federali” – presi a prestito sui mercati finanziari dall’autorità preposta – in tempi di recessione, che dovrebbero poi restituire una volta che l’economia è tornata a crescere. I fautori della proposta sostengono che “la maniera naturale per ripagare i debiti contratti in tempi di recessione sarebbe quella di estrarre fondi dai paesi che presentano un output superiore al potenziale”. Ma la storia dimostra che quella è quasi sempre una condizione rara e di breve durata. E poi tutto dipende da come misuriamo l’output gap (la differenza tra produzione effettiva e produzione “potenziale”). È noto che i modelli utilizzati dalle organizzazioni multilaterali come l’Fmi e l’Ocse tendono sempre a sottostimare l’output gap in quanto sovrastimano drasticamente il cosiddetto “tasso naturale di disoccupazione”. In un tale contesto, la proposta del Bruegel non sarebbe in grado di offrire ai paesi in recessione il sostegno necessario, che sarebbe comunque limitato nel tempo, poiché le economie verrebbero considerate in “piena occupazione” pur presentando tassi di disoccupazione molto alti.
Lo stabilizzatore automatico migliore è il Job Guarantee
Lo stabilizzatore automatico migliore è quello che crea direttamente lavoro in proporzione all’aumento del livello di disoccupazione. In sostanza, per mezzo di un Job Guarantee (JG), i governi offrirebbero un lavoro degnamente retribuito a tutti coloro che non riescono a trovare un lavoro nel privato, creando così un bacino occupazionale pubblico che fluttuerebbe automaticamente in base allo stato dell’economia, rispondendo alla riduzione dell’occupazione nel settore privato. I lavoratori impiegati dal JG godrebbero di un reddito stabile, e l’aumento della domanda a cui questo contribuirebbe darebbe uno stimolo a tutta l’economia. Il JG rappresenta uno “stabilizzatore automatico” molto potente: grazie ad esso ogni volta che l’occupazione nel settore private cala, l’occupazione e la spesa del settore pubblico aumentano, garantendo così la piena occupazione (o quasi: ovviamente il JG non sarebbe in grado di rispondere a tutte le varie competenze e opportunità di lavoro per cui un certo livello di disoccupazione sarebbe inevitabile). Per quanto riguarda i costi, essi sono determinati dal settore privato: se aumenta la spesa privata (per mezzo di investimenti produttivi, per esempio), la spesa pubblica relativa al JG diminuisce automaticamente.
Conclusione
In definitiva, esistono innumerevoli proposte che indicano una via d’uscita dalla crisi dell’eurozona. Alcune son più ambiziose di altre, ma quasi tutte ricorrono ad acrobazie teoriche relative alla classificazione del debito, ai piani pensionistici o ai sussidi di disoccupazione per evitare di affrontare il problema di fondo: ossia i vincoli imposti dal Patto di stabilità e crescita. Quasi tutte le proposte si muovono all’interno della camicia di forza del Patto, appellandosi alla “realtà politica” come giustificazione, ma senza riconoscere che la “realtà politica” è parte integrante del problema, e che finché essa non cambia non saremo mai in grado di fare i necessari passi in avanti. A cominciare da un allentamento dei vincoli di bilancio, un’espansione dei deficit pubblici e l’introduzione di un Job Guarantee a livello europeo.