di Lorenzo Consoli
L’elezione di Jean-Claude Juncker a presidente della prossima Commissione europea, con una maggioranza favorevole nel Parlamento europeo solida e più ampia del previsto, è uno spartiacque nella storia dell’Unione europea. Juncker non sarebbe mai stato designato dagli stati membri, che hanno accettato obtorto collo il meccanismo predisposto dall’Europarlamento per strappare al Consiglio il potere di nomina del capo dell’esecutivo comunitario. Senza quel meccanismo – al quale, va ricordato, hanno tentato di opporsi non solo il premier britannico David Cameron e quello ungherese Viktor Orbán, ma anche la cancelliera tedesca Angela Merkel – il Consiglio avrebbe scelto una controfigura di José Manuel Barroso: un minimo comune denominatore, garanzia di conservazione e di basse ambizioni, consapevole della supremazia degli stati, soprattutto dei più importanti, e del ruolo di servizio che la Commissione deve svolgere, senza disturbare troppo i manovratori veri, cioè i governi.
Questo è stato Barroso per 10 lunghi anni: ha ridotto ai minimi termini il ruolo politico importante e pari grado dei governi a cui Jacques Delors aveva elevato la Commissione; ha difeso solo a parole il “metodo comunitario”, lasciando che si riaffermasse nei fatti il metodo intergovernativo; si è sistematicamente allineato ai governi invece di cercare l’alleanza del Parlamento europeo per imporre le soluzioni più ambiziose e “progressiste”, praticamente in tutti i campi. Durante la crisi dell’eurozona, in particolare, La Commissione Barroso non ha compiuto la sua missione principale – quella di perseguire l’interesse generale dell’Europa e dei suoi cittadini -, sostituendola con l’ideologia mistificatrice della “fiducia dei mercati” (leggi gli interessi esclusivi dei paesi creditori) da riconquistare a qualunque prezzo: anche sfasciando le società, sabotando il welfare state e il modello dell’economia sociale di mercato, aumentando le disuguaglianze, infliggendo, con la prescrizione di ricette economiche sbagliate, recessione e livelli stratosferici di disoccupazione ai paesi “marginali” dell’eurozona. E, infine, alienando all’Europa una gran parte delle opinioni pubbliche nazionali, come non era mai avvenuto prima.
Ora, oltre che uno spartiacque per le modalità istituzionali della sua elezione, Juncker ha l’occasione storica di segnare una svolta proprio laddove ce n’è più bisogno: nelle politiche economiche dell’Ue e nelle politiche di bilancio degli stati membri. Politiche che sono state interpretate, prescritte e sanzionate finora sempre alla luce dell’ideologia “tedesca” dei creditori. Una dottrina secondo cui la riduzione del deficit con l’obiettivo del pareggio strutturale di bilancio è una variabile indipendente, con priorità assoluta su tutto e valida sempre e per tutti allo stesso tempo e in qualunque condizione. “Non esiste spesa pubblica buona e spesa cattiva” e “non si crea crescita economica facendo più debiti” sono due delle affermazioni apparentemente di buon senso ma false e anche piuttosto stupide dal punto di vista economico, che gli zelanti interpreti di quella dottrina (nel primo caso il commissario Ue Siim Kallas, nel secondo il capogruppo bavarese del Ppe al Parlamento europeo, Manfred Weber) continuano a ripetere ancora oggi.
Juncker non la pensa così. Ha proposto un piano di investimenti pubblici e privati “aggiuntivi” (cioè non la solita partita di giro a cui ci aveva abituato Barroso) da 300 miliardi di euro in tre anni, da destinare all’economia reale: infrastrutture per il mercato digitale, l’energia e i trasporti, energie rinnovabili, risparmio energetico, istruzione, ricerca e innovazione, nuovi strumenti finanziari per le Pmi.
È vero: Juncker ha rivendicato le decisioni prese quando era presidente dell’Eurogruppo per salvare la Grecia e l’integrità dell’eurozona, e la stabilità finanziaria riconquistata con la caduta degli spread; ma ha anche riconosciuto che la crisi potrebbe non essere finita, che la crescita è sempre troppo lenta e anemica, che la vera priorità ora è il lavoro, la reintegrazione a pieno titolo nell’Ue del “ventinovesimo stato membro”, quello in cui vivono milioni di disoccupati e di poveri, il cui numero è aumentato spaventosamente.
Il presidente eletto ha ammesso i molti errori fatti quando bisognava “riparare in volo un aereo che stava andando a fuoco”: in particolare il non aver tenuto conto delle conseguenze sociali delle misure di consolidamento di bilancio imposte ai paesi in crisi, e poi le carenze della troika (il braccio armato dell’austerità) dal punto di vista della legittimità democratica. E ha promesso di sostituire la troika con un organismo più responsabile davanti ai parlamenti eletti, e di sottoporre tutti gli eventuali nuovi programmi per i paesi in crisi a una valutazione preventiva del loro impatto sociale.
Juncker ha ammesso anche che il Patto di stabilità e di crescita è stato finora interpretato e applicato soprattutto per perseguire la stabilità e molto poco (o per nulla) per spingere la crescita. È vero che si è sbilanciato poco sull’ormai famosa “flessibilità” da “utilizzare al meglio” nell’applicazione delle regole del Patto, non andando al di là di quanto Italia e Francia avevano già strappato alla Germania e agli altri “rigoristi” nelle conclusioni del Consiglio europeo del 27 giugno. Ma in questo caso è chiaro che la garanzia maggiore che il presidente eletto della Commissione potrà dare, più che negli equilibrismi verbali, sta nel profilo del prossimo commissario agli Affari economici e monetari che sarà incaricato di interpretare e applicare quella flessibilità. Juncker ha già detto che sarà un socialista. E si può ragionevolmente presumere che darà l’importanza che meritano agli investimenti produttivi, capaci di spingere la crescita, che sono e devono essere riconosciuti come “buona spesa pubblica”, checché ne pensino Kallas e Weber.
Juncker ha difeso con forza il “modello sociale di mercato”, che è un vero e proprio carattere identitario dell’Ue, irrinunciabile, e che prevede prosperità per tutti e riduzione continua, non aumento, delle disuguaglianze sociali. Ha perorato un’azione decisa per restituire legittimità democratica all’Ue, un ruolo più attivo della Commissione nella difesa dei diritti, e il ritorno dell’esecutivo alla sua vera missione: difendere e promuovere l’interesse generale. Ha promesso più trasparenza nei rapporti con le lobby, e ha annunciato che con lui si tornerà al metodo comunitario: significa che le proposte legislative verranno messe sul tavolo comunque, quando ce ne sarà bisogno e al livello di ambizione necessario, indipendentemente dal fatto che possa fare o no piacere a Berlino, Parigi o Londra. Basta con le censure preventive a cui ci aveva abituato Barroso. I governi contrari dovranno opporsi alla luce del sole spiegando le proprie ragioni e rischiando di essere messi in minoranza dagli altri paesi e dall’Europarlamento.
Juncker ha chiesto al Parlamento europeo di appoggiarlo in quest’azione con una vera e propria “partnership”, un’alleanza istituzionale nel nome del metodo comunitario. Agli stati membri, invece, con tutto il rispetto, ha proposto una semplice “cooperazione”. Anche questo è significativo del cambiamento di direzione rispetto a Barroso, un cambiamento del punto di riferimento, del referente verso cui il nuovo presidente della Commissione si sente responsabile, che è il Parlamento e non più il Consiglio. Il presidente eletto ha concluso il suo discorso davanti all’Aula di Strasburgo, il 15 luglio, senza aver mai menzionato il suo predecessore Barroso. Ha ricordato invece Jacques Delors, suo “maestro e amico”, indicandolo come suo ispiratore, insieme ai due grandi leader europei e profondamente europeisti che lo sostennero sempre, il presidente francese François Mitterrand e il cancelliere tedesco Helmuth Kohl. Ed è questo, oggi, il destino a cui è chiamato Juncker: essere un nuovo Delors, capace di sollevare l’Europa dalla crisi e dal declino e di spingerla avanti con le ambizioni di una nuova visione, e soprattutto con gli strumenti realistici per attuarla. Ma senza avere dietro di sé, purtroppo, nessun Kohl e nessun Mitterrand.