di Adamo
Per chi, come chi scrive, si appassiona a quel che succede nel mondo, le ultime settimane non sono state certo prive di avvenimenti d’interesse. Da quel tragico ginepraio sempre più senza apparenti speranze noto come MEPP (Middle East Peace Process), al mistero avvolto nell’enigma del negoziato nucleare con l’Iran (da missione impossibile che era fino a non molti mesi addietro repentinamente tramutatosi in uno dei rari dossier in cui la diplomazia internazionale pare assistita da prospettive di successo), passando per il dramma senza fine del conflitto ucraino.
In quella stessa settimana appena trascorsa una notizia forse meno clamorosa, ma non meno interessante, è venuta dal Brasile. Non si tratta di echi dei festeggiamenti per la coppa del mondo di calcio appena conclusasi (anche perché ci sarebbe ben poco da festeggiare al riguardo, almeno in Brasile). Mi riferisco invece al vertice dei capi di stato e di governo dei paesi BRICS (Brasile, Russia, India, Cina e Sudafrica) tenutosi a Fortaleza martedì e mercoledì scorsi, che ha sancito il lancio ufficiale di una nuova banca di sviluppo, destinata inevitabilmente a rivaleggiare con la Banca mondiale, che dovrebbe avere sede a Shanghai.
Ora, chi scrive è dell’avviso che l’importanza di un simile annuncio non vada sopravvalutata oltremisura. Ignorarla del tutto, o anche solo minimizzarla, sarebbe tuttavia un errore forse ancora più grave. Innanzitutto perché la decisione segna un primo passo concreto verso una collaborazione più ravvicinata (“solidarietà di fatto”, per parafrasare un linguaggio familiare a noi europei) tra i componenti di un gruppo che sinora non era andato al di là di iniziative puramente declaratorie. In secondo luogo, perché rappresenta un segnale dalla portata pratica – certo tutta da verificare ma non per questo meno sintomatico – dell’aspirazione di un gruppo significativo di paesi “emergenti” di costruire un insieme di istituzioni e forse anche di regole internazionali parallele, se non alternative, rispetto a quelle di matrice occidentale.
Per chi ricercasse indizi ulteriori di questa tendenza, basterebbe ripensare al voto dell’Assemblea generale dell’Onu sull’Ucraina all’indomani dell’annessione russa della Crimea, in cui accanto alla Russia che votò contro, una fetta importante di paesi delle Nazioni unite si astenne (ben 58, compresi i residui BRICS); oppure la dichiarazione sulla Siria resa dal vertice BRICS di un anno prima, che riconobbe la perdurante leadership di Assad in un tempo in cui i paesi occidentali erano ancora convinti che la caduta del regime siriano fosse imminente. Senza dimenticare lo “storico” accordo trentennale per la fornitura di gas naturale tra Russia e Cina, raggiunto lo scorso maggio negli stessi giorni in cui Ue e Usa erano impegnati a inasprire la pressione sanzionatoria sulla Russia.
In altre parole: in un frangente storico in cui l’Occidente persegue l’unità delle sue posizioni come indispensabile prerequisito di efficacia delle sue iniziative internazionali, una porzione significativa (crescente?) della comunità internazionale pare sempre meno interessata ad aderire alle nostre posizioni. Una realtà su cui converrebbe dedicare una riflessione approfondita e non estemporanea, se è vero che un’azione tanto più corale e responsabile della comunità internazionale è richiesta per affrontare con efficacia le sfide e le minacce globali con cui essa è alle prese. Una riflessione di questo tipo s’imporrebbe con particolare urgenza in Europa, e l’approssimarsi del nuovo ciclo istituzionale potrebbe forse propiziarla. Chi ha davvero a cuore le prospettive dell’Ue come attore globale, infatti, non può che aspirare per essa ad un profilo più ambizioso rispetto a quello di una grande Svizzera. Al tempo stesso, chi ha una certa idea dell’Europa non può non interrogarsi se si addica davvero all’Ue il ruolo di grande Lituania o, al più, di grande Svezia (sia detto con il massimo rispetto per entrambe).