Lo abbiamo chiesto a Bill Mitchell, rinomato professore di economia all’università di Charles Darwin in Australia.
di Bill Mitchell
Una delle condizioni principali che i tedeschi portarono al tavolo negoziale di Maastricht, nel 1991, era la necessità di una banca centrale indipendente per la zona euro che avesse come unico obiettivo quello della stabilità dei prezzi. Solo così, dicevano, si sarebbe evitato che i politici ricorressero alla politica monetaria per perseguire interessi elettorali di breve termine (intervenendo a sostegno dei disoccupati e degli indigenti, per esempio), compromettendo così la sacrosanta battaglia anti-inflazionistica. Questo offrì ai comitati esecutivi delle varie banche centrali – che ovviamente non sono eletti e non rispondono a nessun organo democratico – carta bianca per fare come volevano, e a utilizzare il tasso di disoccupazione non più come obiettivo della politica monetaria (ossia garantire un tasso di disoccupazione non superiore a x) ma come strumento politico-economico per spingere le economie il più vicino possibile alla deflazione, a prescindere dall’effetto che questo aveva sulla crescita economica o occupazionale. Ovviamente l’idea che una banca centrale possa essere economicamente o politicamente indipendente è risibile. Ma la retorica neoliberista della banca centrale indipendente permise ai governi di autoassolversi da ogni responsabilità nella crescita dei livelli di disoccupazione (e dai costi politici ad essi associati), addossando tutta la colpa ai banchieri centrali. Questi ultimi non avevano una base elettorale da compiacere e potevano sempre fare appello allo spettro dell’iperinflazione per giustificare le loro politiche. Ma i banchieri centrali sono “indipendenti” solo quando gli fa comodo; o forse sarebbe meglio dire che si tratta di un’indipendenza a senso unico. Se i politici si azzardano a esprimere un giudizio sulle politiche monetarie, la stampa grida immediatamente allo scandalo. Ma i banchieri centrali dicono intervengono regolarmente negli affari dei governi senza che la stampa batta ciglio.
Di recente il presidente della Bundesbank, Jens Weidmann, ha tenuto un discorso alla conferenza del consiglio economico della Cdu, tenutosi il 4 luglio a Berlino, che ha fatto infuriare non poco Matteo Renzi. Ecco alcuni dei passaggi che hanno infastidito di più il governo italiano:
I premi di rischio sui titoli sovrani dei paesi in crisi sono crollati così in basso che oggi paesi come Spagna e Italia possono finanziari a tassi più convenienti che mai.
A prescindere dal fatto che i tassi di interessi vengono oggi spinti al ribasso dalla politica monetaria molto espansiva praticata a livello globale, i mercati stanno rispondendo positivamente ai progressi fatti dai paesi in crisi per riformare le loro economie. I rischi però sono sempre dietro l’angolo. Primo, c’è la possibilità che i progressi fatti finora vengano vanificati se la fiducia concessa dai mercati si rivela infondata. Secondo, l’atteggiamento più rilassato da parte dei mercati e la politica monetaria espansiva della Bce sta smorzando l’entusiasmo riformista nei suddetti paesi.
Per questo è cruciale che le aspettative siano soddisfatte e che ulteriori riforme siano implementante e non solo annunciate.
Coloro che chiedono una maggiore responsabilità comune dei rischi sono spesso gli stessi che accusano Bruxelles di intromettersi indebitamente nelle questioni di politica nazionale. Il primo ministro Matteo Renzi, per esempio, ha paragonato l’Ue a una “vecchia zia noiosa che ci spiega i compiti da fare”.
La Commissione dovrebbe dunque esigere il rispetto delle regole in maniera ancora più intransigente, e il governo tedesco dovrebbe offrire tutto il suo sostegno. Essere un modello per gli altri vuol dire anche questo…
E poi non è vero che il consolidamento fiscale è un freno per la crescita; al contrario, rappresenta la condizione necessaria per una crescita sostenibile. Generare nuovo debito è un ostacolo alle riforme strutturali.
Renzi ha ribattuto così:
Il compito della Bundesbank è quello di perseguire il suo obiettivo statutario, vigilando sul sistema creditizio nazionale e non entrando nel dibattito politico italiano… Io non parlo delle Sparkassen o delle Landesbanken.
Al momento Renzi sta cercando di distanziare il suo governo dalla dottrina dell’austerità fiscale che sta strangolando le economie europee, e in particolar modo l’Italia. Ha chiesto che le regole del Patto di stabilità e crescita siano interpretate in maniera più “flessibile”. Una mossa lodevole, anche se da socialdemocratico dovrebbe chiedere che vengano abbandonate del tutto, in quanto non garantiscono né stabilità né crescita. Bene ha fatto Renzi, poi, a sollevare la questione dell’ingerenza tedesca negli affari italiani. Cos’è che autorizza il presidente della Bundesbank a criticare le decisioni del governo italiano?
Ma c’è un altro punto importante del discorso di Weidmann: il fatto che non esiste assolutamente nulla che dimostri che ridurre i deficit stimoli la crescita. Sarebbe bello se la Bundesbank producesse un’analisi costi-benefici dell’austerità che promuove con tanta solerzia. A quanto ammontano i costi derivanti dagli anemici o negativi tassi di crescita e dai livelli di disoccupazione da record che si registrano nell’area euro? E quali sarebbero invece i “costi” di una politica di overt monetary financing (monetizzazione) dei deficit degli stati membri da parte della Bce nell’attuale congiuntura economica? La risposta è zero. Non c’è nessun pericolo di inflazione nell’eurozona. Semmai il pericolo è il contrario, la deflazione. E se anche il tasso di inflazione crescesse un po’, quale sarebbe il costo? I libri di testo parlano addirittura di shoe-leather costs: il costo associato al consumo della suola delle scarpe per i frequenti passaggi in banca che uno è costretto a fare a causa dell’aumento dei prezzi. Va da sé che in quest’epoca di carte di credito, banche online, iPhone e suole di gomma tali costi sarebbero piuttosto esigui! Eppure i media mainstream si rifiutano di avviare un dibattito sensato sui costi relativi dell’inflazione rispetto a quelli della disoccupazione.
Almeno Matteo Renzi, dicendo di voler fare di più per l’occupazione e la crescita, sta lanciando una piccola sfida al pensiero unico europeo. Temo che alla fine soccomberà anche lui all’ortodossia, ma l’economia italiana è messa così male che forse il suo recente successo elettorale gli darà il coraggio di affrontare sul serio sia i burocrati di Bruxelles che i rigoristi tedeschi.
La realtà della crisi italiana
Tutti i dati presentati di seguito provengono dal sito dell’Istat. Il primo grafico mostra il tasso di disoccupazione generale e giovanile (15-24 anni) da dicembre 1992 a dicembre 2013. Il trend è innegabilmente negativo. La situazione ha ormai raggiunto livelli critici, e non accenna a migliorare. I costi di un tale livello di disoccupazione sono enormi sia in termini economici – con una perdita quotidiana di reddito che ammonta a milioni di euro – che in termini personali e familiari, e superano di gran lunga qualunque altro costo che uno potrebbe immaginare in un’economia. Inoltre, il danno intergenerazionale derivante dalla disoccupazione giovanile fa sì che i costi di questa politica si faranno sentire per anni a venire. I bambini che oggi sono figli di disoccupati cresceranno per diventare a loro volta disoccupati con figli, perpetuando così il ciclo della povertà e dell’esclusione. Da un punto di vista economico, non c’è nulla di più importante che offrire sufficienti opportunità di lavoro a chi ha voglia di lavorare.
La causa della disoccupazione è ovvia: la mancanza di crescita occupazionale. Il seguente grafico mostra la crescita occupazione trimestrale da marzo 1993 a marzo 2014.
La causa di un livello di crescita occupazionale così catastrofico si evince dal seguente grafico, che mostra la crescita trimestrale degli investimenti produttivi in Italia a fianco della crescita del Pil reale.
Il seguente grafico mostra invece il tasso di posti vacanti (in percentuale alla forza lavoro) nell’industria e nei servizi da marzo 2004 a marzo 2014. I dati sembrano indicare che i posti vacanti nel settore dei servizi continuano a calare mentre quelli nell’industria sono sostanzialmente stabili dopo un crollo significativo al picco della crisi.
La relazione tra il tasso di disoccupazione e il numero di posti vacanti, che prende il nome di curva di Beveridge, si ottiene tracciando il tasso di disoccupazione sull’asse orizzontale e il tasso di posti vacanti sull’asse verticale. Il seguente grafico mostra la seguente relazione tra marzo 2004 e marzo 2014. L’idea è che i movimenti lungo la stessa curva rappresentano eventi ciclici (in cui i posti di lavoro e i posti vacanti diminuiscono e la disoccupazione aumenta), mentre i cambiamenti di curva rappresentano eventi strutturali. Per cui il movimento lungo una certa curva verso il basso in direzione sud-est indica un declino nel numero di posti di lavoro disponibili a causa di una carenza di domanda aggregata, mentre un movimento verso l’alto indica un incremento della domanda aggregata e una minore disoccupazione. Quando la disoccupazione aumenta in un’economia in cui si verificano movimenti lunga la curva di Beveridge, essa è definita disoccupazione “keynesiana” o “ciclica”, in quanto deriva da una carenza di domanda aggregata. Detto questo, la nozione che si possa tracciare una distinzione netta tra cambiamenti di curva e movimenti lunga la stessa è molto contestata e non è mai stata dimostra in maniera empirica. Nel nostro caso, comunque, la curva di Beveridge racconta una storia piuttosto chiara: una profonda recessione in cui la relazione tra tasso di disoccupazione e numero di posti vacanti rimane sostanzialmente stabile. In conclusione, i dati non giustificano una spiegazione “strutturale” della crisi (del tipo: la colpa è dei lavoratori che sono troppo pigri per trovare lavoro, ecc.).
Gli ultimi due grafici mostrano il tasso di povertà delle famiglie (il primo grafico) e degli individui dal 2005 al 2012. Come si può vedere, la situazione è peggiorata notevolmente negli ultimi due anni.
Tutti i grafici riportati nell’articolo sono legati da rapporti causali. Ma il “peccato originale” alla base di questo circolo vizioso è uno: la spesa privata totale in Italia è crollata ma questa non è stata compensata da un aumento della spesa pubblica. Il risultato – del tutto prevedibile – è un’economia cronicamente recessiva. Quello che non si capisce è perché i cittadini italiani siano disposti a tollerare gli enormi costi di questa politica scellerata.