Investire nell’educazione, soprattutto di coloro che non ne avevano mai potuto usufruire, fu una delle grandi intuizioni dei politici che governarono negli anni cinquanta. Grazie ai soldi messi a disposizione dallo stato un numero mai visto prima di italiani intelligenti ma poveri ebbe il privilegio di accedere alle università.
Quest’anno, cinque milioni di europei conseguiranno una laurea nel 2014, una percentuale molto inferiore all’obiettivo che si è data l’Unione europea, che punta a raggiungere il 40% di laureati. Nulla al confronto della Cina, che ne sfornerà 30 milioni. Ma cosa significa oggi conseguire una laurea? Le università cinesi sono come le nostre? E come sono le università italiane rispetto a quelle del resto d’Europa?
Non sapremmo come rispondere. Noi conosciamo solo il valore di alcune università europee (e americane) e soprattutto conosciamo bene lo stato dell’università italiana, avendo molti di noi dei figli e dei nipoti che la frequentano. Il che ci porta a porci un’altra domanda, che ci riguarda più da vicino e su cui possiamo esprimere un giudizio: meritano i nostri professori universitari lo stipendio che paga loro lo stato? È giustificato quello che guadagnano?
Il ministro dell’Istruzione, Stefania Giannini, sottolinea spesso come l’Italia debba aumentare la percentuale dei suoi laureati per avvicinarsi all’obiettivo di Lisbona – se non il 40% almeno il 30%. Ma vale la pena aumentare il numero dei laureati se non riusciamo a fornire un’educazione decente nemmeno a quei pochi (relativamente all’obiettivo ambizioso di Lisbona naturalmente) che oggi la frequentano? Il ministro stesso ricorda che non c’è nessuna università italiana nella classifica delle prime 150 università al mondo, una vera e propria tragedia per un paese che l’università l’ha scoperta. L’Università di Bologna fu fondata nel dodicesimo secolo, traendo ispirazione dai simposi culturali ateniesi dell’età di Socrate, Platone e Aristotele.
Tra l’altro, la situazione delle nostre università è probabilmente peggiore di quello che appare nelle classifiche mondiali. Segnalo al ministro Giannini, per un appraisal molto pragmatico, di andare a leggersi le domande che sono state fatte il 9 luglio 2014 all’esame scritto di Politica Economica all’Università La Sapienza di Roma – la cattedra che fu tenuta negli anni settanta dal nostro più grande economista keynesiano, Federico Caffè, maestro tra l’altro dell’attuale presidente della Bce, Mario Draghi –, con la raccomandazione in cima: “Una calligrafia chiara è indispensabile per valutare il compito”. Non entriamo nel merito delle domande, anche se alcune di esse ci sembrano ormai obsolete dopo la crisi economica del 2008 e rivelano una scarsissima capacità di aggiornamento culturale e per certi versi sono sconcertanti e rivelano una impostazione vacua e dottrinaria. Vogliamo solo sottolineare la sciattezza dell’italiano.
“Si calcoli come varierebbe il tasso di inflazione se il policy maker volesse mantenesse constante il tasso di disoccupazione derivato al punto a…”. Al punto a la domanda era ancora più astrusa e inutile, ma qui vogliamo solo sottolineare che è difficile per uno studente prendere sul serio un esame universitario in cui in una sola piccola domanda trova un grave errore di grammatica e un refuso. Che fiducia possono avere gli studenti in professori che, oltre a porre domande totalmente obsolete, non sanno neanche scrivere in italiano o comunque non si prendono neanche la briga di controllare che le domande siano poste correttamente?
Cosa sta succedendo nelle nostre università? Non è arrivato il momento per i professori di prendere atto che la rivoluzione tecnologica che sta avvenendo nel campo della cultura, della musica, del cinema e anche della stessa università cambia profondamente il loro mestiere? Che molti studenti sono oggi in possesso di un iPad (o almeno di un iPhone)? Ma la domanda più importante è: vale ancora la pena per ragazzi che stanno uscendo dall’adolescenza investire alcuni dei migliori anni delle loro vite nelle nostre università? Non sarebbe meglio per loro, soprattutto se hanno sete vera di conoscenza e vogliono formarsi seriamente, investire il loro tempo in corsi online, magari prodotti e certificati da altisonanti università straniere?
Come ha riportato recentemente il settimanale britannico The Economist, un teenager mongolo di grande talento, Battushig Myanganbayar, è stato scoperto dal Massachusetts Institute of Technology (Mit) attraverso uno dei suoi corsi online. Molti ragazzi che frequentano oggi un buon liceo italiano sono colti, curiosi e hanno voglia di qualità negli studi, e il ministero dell’Istruzione dovrebbe incentivare le università ad andare in questa direzione. Alla fin fine non dovrebbe essere impossibile giudicare la qualità delle università online, soprattutto quelle di economia, che sono quelle che hanno più bisogno di essere ripensate. La qualità sarà attestata dalla possibilità che avranno coloro che conseguiranno una laurea di questo tipo di entrare nel mercato del lavoro.
Come dovrebbero essere i corsi online? Noi crediamo che essi debbano essere gratuiti, per non appesantire le spese delle famiglie medie italiane, colpite duramente dalla crisi e che non possono più affrontare costi alti per l’iscrizione e per l’acquisto di libri di testo di dubbia qualità (per non parlare delle spese di affitto per gli studenti cosiddetti “fuorisede”). I migliori studenti avranno la possibilità di incontrarsi online nelle migliori università senza spostarsi da casa o dal paisiello. Le migliori università saranno quelle che produrranno le migliori lauree online riconosciute come tali da coloro che cercano talenti.
Certo, l’opportunità è quella di seppellire alcune istituzioni che oggi più che formare gli studenti sembrano danneggiarli e che non consentono più di poter ricevere, dietro pagamento, come è oggi in Italia, una dignitosa educazione. Il rischio è naturalmente che anche online ci si concentri sulle università in grado di pagare professori superstar e che, gestite da privati, potrebbero rafforzare le esistenti disuguaglianze nel reddito e nel patrimonio. E naturalmente non possiamo non aspettarci un’opposizione feroce da parte dell’establishment dell’alta educazione, soprattutto in Italia.
Ma non dovrebbe essere difficile per il ministro dell’Istruzione spiegare alle famiglie che hanno fame di buona educazione che i soldi spesi dallo stato non dovrebbero servire a garantire a professori svogliati o demotivati un buono stipendio senza troppi sforzi. Una buona educazione favorirà i nostri figli e questo dovrebbe essere un argomento forte.