Promosse
Germania. Dal 7-1 al Brasile abbiamo imparato a memoria la storia del piano decennale post-disfatta di Euro 2000, del cambio di paradigma tattico imposto da Klinsmann e Loew, della programmazione, dei bilanci virtuosi e della valorizzazione dei vivai. Anche se, avesse vinto l’Argentina (e c’è andata vicina), buona parte dei commentatori avrebbe prontamente riposto la storia nel cassetto per rispolverare il sempreverde (e stereotipato): “I tedeschi sono una macchina perfetta, arrivano sempre in fondo, ma poi quando si tratta di fare l’ultimo passo gli mancano l’estro e la scintilla di follia”. Qualcuno non ha resistito e l’ha scritto lo stesso, magari tra le righe. Stereotipi, appunto. Come ha spiegato Schweinsteiger prima della semifinale, oggi la Germania rappresenta l’espressione più moderna ed evoluta dell’approccio brasiliano al gioco: fraseggio, tecnica, palla a terra, attacco corale e soprattutto rischio. La “macchina perfetta” corre da sempre sul filo. Al mondiale del 2006 la Mannschaft di Klinsmann e Loew debuttò con un emblematico 4-2 contro la Costa Rica. E le occasioni di Higuain, Messi e Palacio in finale riportano alla mente i micidiali contropiedi italiani del 2006 (Del Piero) e del 2012 (Balotelli). Allora andò male, stavolta no. Giusto così. E meno male che mancavano Schmelzer, Gundogan, Gomez e Reus…
Olanda. Dal punto di vista tattico, la principale anomalia di Brasile 2014. Un santone del calcio d’attacco che a poche ore dal debutto rivolta come un calzino la nazionale più ideologicamente offensivista del mondo, rinuncia al 4-3-3, si mette a 3 in difesa e ordina la marcatura a uomo a centrocampo. Il tutto offrendo scampoli del calcio più spettacolare della manifestazione. Senza contare il capolavoro di cinismo e perfidia psicologica della sostituzione del portiere a ridosso dei calci di rigore. Più di così era quasi impossibile fare. Si ripartirà dal recupero di Strootman e dalla maturazione di Clasie, Blind e Depuy. Ma senza Van Gaal e con Robben, Van Persie e Sneijder avviati inevitabilmente al declino, le incognite in vista di Euro 2016 non sono poche.
Belgio. Quando si è favoriti non avendone il pedigree, non deludere è già un traguardo. E la squadra di Wilmots, tutto sommato, ha rispettato le aspettative. Primo posto nel girone a punteggio pieno, vittoria con gli Stati Uniti in un ottavo di finale vibrante e spettacolare, vetrina per i suoi gioielli Courtois, De Bruyne, Origi e Lukaku. Un po’ sotto tono Hazard, il più atteso. Perde senza sfigurare nei quarti contro l’Argentina, scontando il deficit di esperienza. Accredita la propria candidatura a Germania del futuro. Unico rimpianto, l’Olanda in semifinale…
Francia. Per un movimento della portata e delle ambizioni di quello francese un quarto di finale non può essere considerato un successo, ma la spedizione dei bleus in Brasile lascia comunque buone sensazioni. Dopo la tegola dell’infortunio di Ribery, il suo uomo di punta, Deschamps non fa una piega e costruisce un 4-3-3 arioso e spettacolare intorno a un Benzema finalmente all’altezza, alla qualità di Valbuena e Griezmann sugli esterni e alla forza fisica di Pogba e Matuidi a centrocampo. Un girone morbido le facilita il compito, ma il 5-2 alla Svizzera resta tra le più impressionanti manifestazioni di forza del mondiale. È mancata forse un po’ di coraggio e di sfrontatezza nel quarto di finale contro la Germania. Ai prossimi Europei, in casa, sarà comunque una delle squadre da battere.
Senza infamia
Grecia. Brutti, sporchi e cattivi. Non li tifa nessuno, non piacciono a nessuno e soprattutto non se li fila nessuno. I greci però ci mettono l’orgoglio ed escono a testa alta, nonostante la povertà di valori tecnici e di soluzioni offensive. Per due volte, contro Costa d’Avorio e Costa Rica, si esaltano a pochi secondi dal 90’ (la seconda invano). Menzione d’onore per i due leader spirituali Samaras e Torosidis e per i centrali di difesa Sokratis e Manolas.
Svizzera. Esce non demeritando agli ottavi con l’Argentina, sfiorando il pareggio al 120’ con il portiere Benaglio che tenta la sforbiciata in area. Il resto è una vittoria stentata con l’Ecuador, un’imbarcata contro la Francia e la qualificazione riacciuffata contro l’Honduras con una tripletta di Shaqiri. Poteva forse fare di più. Ma non ci si aspettava molto di più.
Bosnia-Erzegovina. L’attenuante del debutto in una grande manifestazione la salva da un giudizio più severo. Dal punto di vista tecnico (Dzeko, Ibisevic, Pjanic, Lulic) aveva le credenziali per passare il turno. Perde dignitosamente con l’Argentina, cade male contro la Nigeria con la qualificazione in ballo. Si libera dei complessi contro l’Iran, mostrando anche sprazzi di buon gioco, ma è troppo tardi.
Bocciate
Croazia. Aveva un girone non semplice, e nella partita d’esordio contro il Brasile è stata penalizzata dall’arbitraggio, ma è difficile allontanare la sensazione dell’amaro in bocca, soprattutto dopo il tracollo contro il Messico nella gara decisiva. L’ossatura della squadra – Srna, Lovren, Rakitic, Modric, Mandzukic – era da quarti di finale. Mette se non altro in vetrina il talento di Perisic. Ad Euro 2016 potrà tentare il riscatto.
Italia. Prandelli getta i semi della disfatta alla Confederation Cup del 2013, mettendo mano senza un vero motivo al 4-4-2 con il centrocampo a rombo su cui era stato costruito il sorprendente Europeo 2012. Si dà la zappa sui piedi con l’esclusione di Giuseppe Rossi, privandosi del suo attaccante più talentuoso, maturo e versatile, e con l’ostinazione su Balotelli unica punta. Risultato: la squadra tiene palla senza tirare quasi mai in porta. In difesa urgono ricambi: il migliore è stato Barzagli, che ha 33 anni e nel 2006 era la riserva di Nesta, Cannavaro e Materazzi. Verratti l’unica vera nota lieta.
Portogallo. Tutto passa da Cristiano Ronaldo, d’accordo. La convalescenza del Pallone d’Oro, però, non giustifica la pochezza tecnica e agonistica di una squadra che aveva in rosa giocatori come Bruno Alves, Pepe, Fabio Coentrao, Joao Moutinho e Meireles. L’impressione è che si sia chiuso un ciclo. Ad Euro 2016 Ronaldo avrà 31 anni e sarà vicino al passo d’addio. Servirà un contorno degno dell’occasione.
Spagna. Il tiki-taka è il grande sconfitto del 2014, e i suoi inventori ne certificano il declino con una delle peggiori performance di una nazionale campione uscente della storia del Mondiali (il primato se lo giocano forse la Francia del 2002 e l’Italia del 2010). La squadra di Del Bosque, semplicemente, è arrivata fisicamente scarica, appagata e un po’ invecchiata al termine di una delle avventure sportive più esaltanti del dopoguerra. Ma il tramonto del calcio spagnolo è ancora lontano: le furie rosse (la roja è solo il Cile…) sono campioni d’Europa under 20 e La Liga ha piazzato tre squadre ai primi tre posti delle ultime competizioni Uefa. Sergio Ramos, Pique, Jordi Alba, Busquets, Fabregas, Silva e Iniesta garantiranno la continuità. De Gea, Thiago Alcantara, Javi Martinez e Koke sono il futuro. Tiki-taka o no, bisognerà ancora fare i conti con loro.
Inghilterra. Finalmente libera del fardello delle aspettative, si gioca almeno con coraggio le sue carte, provando a vincere (e perdendo) sia con l’Italia che con l’Uruguay. Purtroppo Jagielka non è Terry, Gerrard non è eterno e Rooney è in involuzione. I segnali più incoraggianti arrivano da Sturridge e Sterling, ma in patria tutti aspettano Ross Barkley, il second coming di Paul Gascoigne. Il talento giovane c’è, l’impressione è che il problema sia nel manico.
Russia. In fondo il compito non era difficile. Fabio Capello doveva solo passare il turno nel girone più facile degli otto, far fare le ossa ai suoi talenti (Dzagoev, Kokorin, Satov, Kannunikov) e “apparecchiare la tavola” per il grande banchetto di Russia 2018. Invece la squadra esce di scena con una sconfitta e due pareggi per 1-1, senza un sussulto e dando una sconfortante sensazione di impotenza. Il ct italiano ha un contratto fino al 2018 e per adesso ha scampato il giudizio della Duma, ma già tra due anni ad Euro 2016 dovrà far vedere a Putin qualcosa di più. Il suo calcio oggi sembra superato.