Ci sono giornate che fin dall’inizio hanno la forza delle origini, per cui svegliarsi è un po’ come nascere, il mattino ricorda l’infanzia del mondo, dedicarsi agli impegni ha risvolti epici, l’amore sa di alchimia. Malati di eroismo ci opponiamo il più a lungo possibile al declino, e questa apparente autonomia dal tempo ci autorizza a rendere testimonianze che saranno probanti a patto di dare loro una forma perfetta. Nascono così le migliori opere pomeridiane, quelle dove la maturità si moltiplica riflettendo su se stessa e dopo le quali ognuno, sicuro di aver lavorato a qualcosa che parlerà anche oltre il proprio silenzio, è pronto ad affrontare in solitudine il congedo, quasi non si trattasse di sparire ma di restituirsi alla stessa notte da cui si è usciti, alcune ore (o ere) prima, grazie al risveglio-nascita.
In giornate come queste maturano intuizioni che possono fare da risposta a domande diverse e inconciliabili. Di solito il merito di certe riuscite non è ascrivibile alla volontà; determinante è sempre l’incontro casuale, l’inciampo degli occhi a cui seguono gesti quasi meccanici. Come quando ho visto la mia mano allungarsi verso il giornale di una settimana prima; per così tanto tempo non l’ho considerato, e ora che sto per andare in bagno voglio portarlo con me in quella pausa di quiete dove sono concepibili solo letture stravaganti.
Quali che fossero le intenzioni dell’articolista e del responsabile della pagina, proprio mentre i suoni della strada entravano caldi dalla finestra aperta, e la mia distrazione sembrava pienamente accolta da quelle parole casuali in cui apparivano, senza peso specifico, i nomi di Lyotard e di Feyerabend, la risposta di colpo ha preso forma, lontane domande ne hanno reclamato la pertinenza, e di colpo tutto mi è apparso sotto un’altra luce.
Cosa favorisce certe riuscite? Di sicuro, un ruolo particolare lo hanno campi specifici come filosofia e letteratura, ma se penso alle esperienze più recenti e significative – ovvero alla rete di amicizie reali e virtuali fondate sullo scambio di idee a voce o per scritto – mi verrebbe di dire che il merito va soprattutto alla solitudine. Sì, proprio alla solitudine, per quanto la pratica della conversazione sembra ormai indebolita – nelle chat in particolare, dove è più facile l’equivoco in assenza del corpo – e di conseguenza risultano rafforzati l’assertività, il pregiudizio, l’attitudine alla rissa verbale; tutto all’insegna di un fanatismo di fondo che riduce a pura ripetizione di slogan la capacità (e la responsabilità) di pensare.
Il clima che prima o poi prevale in certi luoghi condivisi (che siano case private, manifestazioni pubbliche, bacheche, blog) è quello che potrebbe precedere un linciaggio, l’esplosione di una guerra civile. Va precisato che l’area di riferimento dei miei rapporti, dai più profondi ai più superficiali, non contempla soggetti che abbiano tratto, o traggano, beneficio dall’attuale crisi. Il che vuol dire che tutti noi attori di questa verifica, apparteniamo alla vasta categoria di quelli che giorno per giorno arrivano a stare un po’ più male di prima, a perdere non solo denaro, beni, servizi, ma anche prospettive, fiducia, energie.
Il più dissennato bombardamento mediatico – con notizie date incomplete e avvelenate per sobillare i peggiori istinti – aggrava un già difficile stato delle cose. I più tendono a radicalizzare in modo manicheo l’attribuzione di bene e male assommando in sé tutto il primo e scaricando sugli altri tutto il secondo. Il detonatore “selvaggio” della rete, incline a decontestualizzare e a tagliare con l’accetta, fa il resto e il risultato è una confusione e una tensione sempre più esplosive, e un isolamento rabbioso di cui non immagino altri esiti che fornire bassa manovalanza a quelle che saranno le aggregazioni del futuro: le bande.
La guerra, come al solito, sarà fra poveri, la convinzione di essere nel giusto guiderà ogni banda contro la certezza dello sbagliato appiccicata sulle altre, di volta in volta nemico di turno. La legge sarà quella del più forte e il momentaneo vincitore scoprirà solo alla fine che l’arena in cui si è battuto era una corte chiusa alla salvezza, e aperta solo alla visione dall’alto dei sadici che fanno esperimenti coi sudditi per rendere il più aggiornata possibile la voce “potere”.
Ma tutto questo cosa c’entra con la giornata particolare, con l’intuizione in sala da bagno, con la filosofia nascosta in letture casuali? E poi cosa si diceva di Lyotard e Feyerabend? Come possono, quelle schegge luminose di vita spicciola, tradursi così nettamente nel livido di premonizioni catastrofiche? Non lo so, davvero. So solo che è accaduto. Forse la giornata particolare l’ho immaginata per meglio reggere l’evidenza del male che si mostra in ogni piega della realtà; o forse, invece, ho enfatizzato il male per contenere l’entusiasmo seguito a un’epifania che faticavo ad accogliere dopo che di certe esperienze avevo perso finanche la memoria.
Rimane l’impasse di un accostamento estremo bene-male che nella sua vaghezza mi sembra inspiegabile. O invece, magari, una spiegazione c’è, ellittica, azzardata, ma c’è. Forse è proprio dall’energia inespressa dei forti contrasti, lì dove molta luce collide con tanto buio, che scaturiscono le occasioni di scrittura. Le storie, in fondo, amano alimentarsi alla necessità di dare una fisionomia all’informe; durasse anche per un attimo il miracolo della visione, la vertigine del riconoscimento. Il tempo sufficiente a dire sì, ho visto, è proprio vero. L’accesso sicuro a una riserva di immagini per il tempo della scrittura, e di credulità per quello della vita. D’altronde quanto scritto finora è già di per sé l’inizio di una storia. Con Lyotard e Feyerabend misteriosi deuteragonisti; inconsapevoli, al pari di tutti noi, di come andrà a finire, e dove, e perché.