Per notevoli che siano qualità e fortuna di uno scrittore, da vivo arriva a pubblicare solo una parte dei suoi lavori. Un po’ perché molte pagine prive di destinazione non osano prendere il largo; un po’ perché solo la morte fa trovare un ordine di senso dove neanche la più sfrenata arroganza dei vivi oserebbe immaginarne uno. Sta di fatto che se uno scrittore muore famoso, gli inediti vengono curati da esecutori testamentari che li amministrano secondo strategie di mercato. Se muore ignoto, è probabile che quanto di suo non è andato in stampa sparisca con lui.
Potrebbe rivelarsi appropriata, la sparizione, giacché alla cultura nocciono le cose scadenti, ergo, meglio far sparire che inquinare. Ma siamo sicuri che l’equazione ignoto uguale scadente sia giusta? È facile constatare quanto spesso i libri di autori famosi siano di scarso valore letterario. E allora, per la stessa legge della non corrispondenza tra fama e qualità, non è lecito supporre che nell’ignoto possano nascondersi perle? E se così fosse, sarebbe il caso di aggiungere al peso del “brutto che appare” anche il carico del “bello che resta invisibile”?
Poiché come scrittore mi prefiguro più vicino agli ignoti che non ai famosi, e sono abbastanza certo di non aver trescato troppo con lo scadente, ho pensato di pubblicare adesso, in anticipo sul congedo, le pagine che per le ragioni più varie vorrei sottrarre all’invisibilità, o a memorie altrui talmente travisate da far rimpiangere l’oblio. Non diffido di quei curatori spontanei che spesso sono gli amici di penna, ma essendo io incapace di sfornare buone prime stesure, e avendo oltretutto il vizio di non buttare nulla dei passaggi intermedi, anche l’amico più benintenzionato, se alle prese con carte lette senza il dubbio delle varianti d’autore, rischierebbe di trasmettere un’immagine di me ben poco fedele.
Gli scritti che ho scelto di raccogliere, usciti per una buona metà in riviste o in blog, comprendono lettere private, recensioni di libri o di spettacoli teatrali, interventi a convegni, introduzioni a cataloghi, due sillogi poetiche degli anni Ottanta, due racconti esclusi dalla prima raccolta e destinati a non trovare posto in un’improbabile seconda, interviste, commenti scambiati su facebook e altri scritti d’occasione. Tutti testi nei quali brilla qua è là, tramite i temi del letterario e della comunicazione artistica in genere, qualcosa che attiene a un faccia a faccia continuo e dialettico con lo spirito del tempo.
L’assemblaggio dei materiali, ognuno preceduto da un’introduzione che prova a definirne il contesto, segue l’ordine cronologico di stesura; il che delinea un percorso esistenziale abbastanza emblematico degli ultimi trentaquattro anni di storia italiana, almeno per come la si può osservare dalla prospettiva di un marginale non distratto quale sono stato (e sono). Di primo acchito sembra che la politica, in questi materiali, sia poco rappresentata, ma anche ai brani in apparenza non politici (e sono maggioranza) va applicato il principio, ormai irrinunciabile, che invece lo sono in virtù del loro essere personali.
Il problema principale di questa operazione, però, non nasce dalla difficoltà di sottrarre al caos degli archivi gli scritti degni di salvezza, quanto dalle considerazioni scoraggianti che questa ricerca mi costringe a fare sullo stato delle cose in ambito letterario; un ambito i cui tratti antropologici e sociali, un tempo, m’erano parsi dotati di qualche statuto eticamente condivisibile (scrivere non dovrebbe equivalere a interrogarsi “insieme” sull’esistente per affrontarne meglio le asperità?), e che ora, invece, mostra di avere assunto valenze fortemente mercantili.
Alla mia età, la soluzione al problema non abita certo nei lamenti, che quindi eviterò. Il modo in cui mi sono accostato al lavoro sugli inediti, in fondo, ha contribuito a mettere insieme – oltre agli scritti sparsi, e alle deprimenti constatazioni sull’ambiente letterario – anche i pezzi di una risposta di più ampia portata, vera e propria “anti-disperazione”, che stava nell’aria e che solo difetti del mio vedere m’impedivano di cogliere. E la risposta recita: “Continua a scrivere come se quello a cui stai lavorando fosse al contempo il tuo primo e il tuo ultimo libro. Nel costeggiare le spine, àrmati del più sacrosanto noli me tangere e fai parlare solo le parole. Se anche lì per lì sembrano mute, prima o poi incontreranno la loro voce, l’attenzione che le farà esistere”.
In proposito prendo a modello Caillebotte. C’è un suo quadro famoso, conservato al Musée d’Orsay, a Parigi, intitolato Les Raboteurs de parquet che illustra esattamente cosa vorrei fare scrivendo. Lo sforzo di quegli operai è così evidente (certo, piallare il legno costa fatica), ma è anche così naturale, così emblematicamente umano. Le posture a cui li costringe la fatica sono inappuntabili, essenziali, infine eleganti. Non c’è niente di più e niente di meno di quanto occorre per fare bene il lavoro. Ecco, scrivere come se fossi uno dei piallatori di parquet dipinti da Caillebotte: a questo posso tendere, alle soglie del decennio dai settanta agli ottanta che, a detta di molti ultracentenari, è forse il più bello nella vita di un uomo di pensiero.
Buoni propositi a parte, però, il futuro vacilla e avrei bisogno di un’energia che mi permettesse di disarmare (disamare?) quanto, di me, l’assenza di prospettive reali rende approssimativo, inconcluso. Che fare? Incoscienza per incoscienza procedo comunque, fosse anche per “recarmi inerme / alle fonti del danno” come ho scritto un tempo quando ancora non sapevo che si scrive sempre per dopo, che le parole giuste sono tali sia perché così suonano nel momento in cui se ne fa la scoperta, sia perché prima o poi appare una forma incognita alla quale poterle riferire per quel battesimo dell’esistente che è la comprensione.