Un suggestivo video, firmato “Rai, per informare, non influenzare” appare in questi giorni sulle reti pubbliche. Uno spot di un minuto e mezzo di immagini molto belle, nel quale si sostengono due cose: 1) che sul piano del commercio internazionale è meglio lavorare a livello di Unione europea che da singolo paese, perché l’impatto di un mercato da 500 milioni di consumatori è certamente più forte di quello di una da 60 milioni; 2) che l’accordo commerciale di libero scambio con gli Stati uniti, il cosiddetto TTIP, è una cosa buona e che va firmato.
La prima cosa è certamente vera, è nello spirito dell’Unione. In qualche caso è giusto anche far da soli, ma in linea generale quando ci si rivolgre ad un partner così importante è meglio far sentire tutto il peso che si può avere, così come si sta facendo per il TTIP. La seconda è un po’ meno scontata. Si tratta di un accordo che il Parlamento europeo dovrà esaminare, e al quale potrebbe sollevare delle obiezioni. Attualmente anzi ci sono molte riserve tra i politici e gli osservatori, le trattative sono addirittura state rallentate. Perché non è, come nello spot, che si discute solo su temi “semplici” come il costo del dazio sulla pasta, ma anche di audiovisivo, che vuol dire la distribuzione e la diffusione della cultura (e la Francia per ora ha bloccato questo capitoplo, nel quale gli Usa avrebbero potuto anche cancellare il settore in Europa, vista la loro estrema capacità produttiva), e anche i dirttiti degli utenti, la protezione dagli Ogm. Insomma, non è una partita esclusivamente commerciale, dentro ci sono i diritti dei consumatori, insieme a quelli sulla salute e anche sul lavoro e sul tipo di società che si promuove. Soprattutto è una partita che non è stata chiusa e forse lo spot, che cerca di creare un generico consenso attorno al negoziato e a un’esito del quale non si spiega praticamente nulla, potrebbe essere fuorviante nel far sembrare l’accordo “buono comunque”.
Certamente è buono stabilire migliori relazioni commerciali con gli Usa, va fatto, certamente c’è da far crescrere la ricchezza e il benessere, ma bisogna vedere a che prezzo, a che condizioni.
Se proprio uno spot è necessario, metta tutto sul piatto, non solo il risparmio per i nostri esportatori di pasta secca, ma anche i posti di lavoro che eventualmente sarebbero creati, dove andrebbe questa ricchezza, quali vantaggi avremmo per la nostra salute e il futuro della nostra cultura. E così via.
Ma infine: quando mai si è visto una televisione pubblica, in Europa, promuovere non una politica sociale già “approvata”, sulla quale c’è consenso, come la campagna che so, contro l’alcolismo o contro l’abbandono scolastico, o per andare a votare alle elezioni europee, ma addirittura la stipula di un accordo internazionale che viene tratta in riservatezza da funzionari pubblici? “Per esportare meglio ci vuole un accordo di libero scambio”; dice lo spot. Ma è la televisione che deve decidere queste cose? Che una televisione pubblica lavori per creare un consenso preventivo su un atto del quale non si conoscono non solo i dettagli, ma neanche le linee generali e che è ancora in discussione è certo una novità. Fa riflettere.