UNO – Mancano pochi giorni al solstizio d’estate quando scendo dal traghetto a Olbia. Le sei del mattino, il sole è appena sorto e il grigio dell’aurora già vira in rosso-arancio. Neanche una nuvola nell’arco dello sguardo. Al bar del porto il traffico di clienti è quasi tutto di maestranze locali; solo di tanto in tanto qualche turista imbambolato mastica sonno davanti ai cappuccini. Tre addetti alla sorveglianza – con le pettorine security police e le pistole alla fondina – scherzano con uomini della Sinergest in fluorescenti giacche arancioni e la paletta verde e rossa infilata nella cintola.
Appartengono tutti a una comunità di conoscenti e riconoscenti, a riti quotidiani dove l’allegria è di casa. Sono giovani, sani, hanno un lavoro. Qualcuno, magari, avrà alle spalle una notte d’amore. Fra i tre della security c’è una donna. La guardo in un modo che la costringe a girarsi. È così vera e possibile che per gioco mi spingo a immaginare di vivere con lei. Dove potrei essere, io, mentre lei scherza con i colleghi nel bar del porto all’inizio, o forse alla fine, di un turno di lavoro? A casa davanti al computer, a scrivere. Ma se vivessimo assieme forse la mia depressione – quasi affascinante all’inizio, per quanto sa somigliare a una forma d’intelligenza – le ruberebbe il sereno.
E allora la lascio libera di rimanere in qualcosa che non mi riguarda, la restituisco alla sua realtà fatta di ordine, quale che sia; magari col tubo di dentifricio aperto e secco sulla mensola del bagno, i trucchi sparpagliati attorno al lavandino, e l’intimo a mollo nel bacile di plastica. La lascio alle piccole cose vissute sognando utopie che solo lei conosce e che mai io riuscirei a immaginare. E so bene che, se non sono capace d’immaginarla, una donna non la merito.
DUE – Di nuovo le radici. Pensavo di averle perse: la Roma periferica dei miei dodici anni, la Toscana dai ventotto ai quaranta e oltre, dove alberi poco avvezzi alle presenze umane, col loro solo esistere, hanno cominciato a insegnarmi come ci si prepara a morire; una conoscenza i cui segreti avevo provato invano a farmi svelare dagli addetti all’anima fin lì incrociati.
L’essenza di un’intera vita condensata in questi due soli luoghi – essenza che, per quanto s’è insecchito il mio sentire, consideravo ormai persa – l’ho ritrovata, invece, d’improvviso, nelle forme di un paese della Sardegna occidentale dove da qualche anno torno con sospetta regolarità perché la mia prima figlia, che lì ha una casa, mi ospita, e perché per accontentare il mio secondo figlio – che ama quel mare, e il ripetersi delle cose in tradizione – vinco la resistenza che ogni anno mi spingerebbe a rinunciare al viaggio pur di non mettere ancora insieme i pezzi della mia recalcitrante famiglia e lanciarli verso gli ostacoli di due settimane da trascorrere gomito a gomito come nel resto dell’anno mai succede. Così Bosa entra in campo coi suoi tanti colori in libertà, madonna coronata da mura di castello sopra la cui testa ondeggia, a mo’ di spirito santo, il frusciare di rondini mai stanche.
TRE – Non so neanch’io cos’è, adesso, il piacere degli occhi nel guardare questo mare per famiglie che più lo fisso e più mi calma, come se dai pochi elementi della scena – l’arenile costellato di ombrelloni, l’acqua di bagnanti, il cielo disegnato a destra e a sinistra dalla testardaggine di monti folti solo di macchia, la radio locale che scempia l’aria di pubblicità e canzonacce, e il residuo di caffè a rinsecchirsi nella tazzina – potesse generarsi un istante di totale e gigantesco sentire, un’irripetibile e perfetta felicità.
QUATTRO – Alzarsi prima dell’alba rende inclini a certe visioni. La moka e l’idea del caffè quando il caffè sintetizzava un mondo di attivismo e intelligenza. Il vaso del miele ormai alla fine. Le promesse degli utensili a riposo. Dopo un’ora e diciassette minuti è già schiarita la notte delle cinque alle mie spalle. Farà bello anche oggi, sarà caldo. Corpi infernali giaceranno al sole. Se cala nuovo vento di maestrale, la nave del ritorno sarà in anticipo sul puntuale. Come una vela aperta, come un cuore, otterrò a prezzo di anzitempo la dignità del mio ritorno a casa.
CINQUE – Sulla corriera verso Olbia, coi paraocchi dello scontento per l’ora avversa che si riavvolge. Non c’è più antico, qui. Lo capisco dalle sughere tozze e grigie sopra la ruggine del tronco decorticato; me lo dicono i monti sullo sfondo, così schiacciati da un tempo ormai insopportabile, dal peso di ere belle come la promessa della loro forza originaria.
Non c’è più antico, il tempo si vergogna di aver aspettato tanto, di aver creduto nella sua stessa attesa. C’è il folto dei querceti e l’arido delle cime su cui pesa questa prima siccità. Sarà luglio nel nome di musiche incivili. Fa sera sugli ovili, i pascoli si liberano a distesa della febbre che li ammala da ore. Le creste rocciose, le fenditure su cui poggiano i rilievi hanno lasciato che gli abbracci del morbido (come sa essere morbida la terra di risulta) cadessero loro di mano, spogliate per sempre del cedevole, coi soli rifugi degli orti irrigui attorno alle case della periferia. Sta nascendo Olbia nel ceruleo del mare tra gli slarghi. La nave aspetta, come fa ogni sera. Mostra la sua pazienza nei grumi di ruggine coperti di vernice, nel sale di cui esprime idea e velatura. Ora che sono distante da tutto, accolgo di nuovo in me la solitudine, come fosse lei a tenermi, per forza d’amore, nel suo cavo.