Le tempeste sono state nazionali più che europee. L’ondata populista delle elezioni della scorsa settimana si è sentita chiara anche a Bruxelles, ma dove ha colpito più forte è stato a Londra e Parigi, (e il presidente francese, incapace di dare risposte, dà la colpa all’Europa). Nella capitale europea la si analizza, la si vuol capire bene, ma non determinerà le politiche dell’Unione. Non ha gettato nello scompiglio, anche perché quel che conta quando si governa sono il sangue freddo e la capacità di analizzare la situazione, e la situazione dice che: 1) i populisti sono una (o due o tre) minoranze nel Parlamento e 2) ci sono ben cinque anni di tempo per dare risposte a quegli elettori arrabbiati che li hanno scelti, e già, da tempo l’Unione riesce a darne qualcuna. Guardiamo il caso Grecia, o Portogallo, due paesi “sotto programma”, che hanno consegnato i loro libri mastri a Bruxelles, e dove i populisti praticamente non esistono, arrivano si e no al 10 per cento, anche se ad Atene la presenza di una forza neonazista, in se, preoccupa. Son cresciuti, lì, gli euro-critici, coloro che vogliono l’Unione, vogliono la moneta unica, ma ne vogliono una gestione diversa. Anni luce di distanza da un Grillo (che, infatti, ha perso qualche milione di voti).
Se ci sono leader di successo, come è capitato in Italia, i populisti non crescono rinculano, si disorientano, e sulle prime sembrano anche sulla buona strada per nuove scissioni. In Olanda un leader liberale non certo simpatico, ma deciso, ha ricacciato indietro Geert Wilders. I populisti hanno vinto non dove si sta male, o comunque non dove si sta peggio, ma dove i leader politici sono deboli, non hanno un programma, non convincono. E’ successo in Gran Bretagna, dove David Cameron ha mostrato tutta la sua pochezza in questi anni, in Francia dove François Hollande, almeno visto dall’estero, ha fatto notizia più perché andava dalla sua amante in motorino gabbando la sicurezza che per qualche iniziativa, anche sbagliata, ma di spessore, e in Belgio, che ha una situazione tutta speciale, i separatisti fiamminghi hanno vinto, ma sono soprattutto separatisti.
La famiglia Le Pen, in Francia, non è la prima volta che fa tremare l’establishment, ma poi si è dimostrata inconsistente, non in grado, almeno fino ad ora, di proporre una classe dirigente all’altezza della grande tradizione francese. Nigel Farage ha la protesta dei britannici, ma deve ancora dimostrare di avere la loro fiducia. Alle comunali che si sono svolte contestualmente alle europee, pur ottenendo un buon risultato, non ha preso neanche un sindaco, e dei circa 3.000 consiglieri comunali in ballo ne ha avuto solo un centinaio. Il risultato delle europee è vero, ha ridato fiato ai conservatori euroscettici, che seguono Farage sul piano più facile: Uk out of EU. Ma Cameron probabilmente non vincerà le prossime elezioni e dunque il referendum che ha promosso non dovrebbe tenersi. E’ una situazione complessa, in evoluzione, ma non drammatica.
Dunque, con calma e sangue freddo a Bruxelles ci si sta organizzando (probabilmente facendo ancora molti errori, in particolare se si continuerà a ragionale prima sull’interesse nazionale e di grandi aziende e banche, e solo poi, in maniera quasi residuale, su quello europeo e dei cittadini) per il prossimo quinquennio, che partirà, di fatto, con la presidenza italiana di turno il prossimo primo luglio. Proprio quando si inizierà a votare per la prima carica da rinnovare, il presidente del Parlamento europeo. L’ufficio più importante però è quello di presidente della Commissione, all’interno di un gioco ad incastri complicato, dove ci sono il presidente del Consiglio europeo, l’Alto rappresentante per la politica estera, il presidente dell’Eurogruppo e così via, a scendere, passando anche per la Bce, che per fortuna ora non è in scadenza.
Il Parlamento ha tentato di forzare la mano sulla scelta del presidente della Commissione, proponendo agli elettori un candidato per ogni partito che abbia voluto farlo. I Trattati, la Costituzione dell’Ue, prevedono delle regole ben chiare: l’indicazione spetta al Consiglio, dopo che il suo presidente ha consultato i leader parlamentari e tenendo conto del risultato delle elezioni. Il nome indicato dovrà poi avere il voto di fiducia del Parlamento. E’ chiaro che si tratta di una collaborazione, che con Lisbona si è voluto fare un passo avanti in favore del ruolo degli eurodeputati, ma le regole ci sono, e finché ci sono vanno rispettate. Le procedure hanno un senso, sia per difendere il Parlamento da designazioni arbitrarie del Consiglio che potrebbero portare ad uno stallo istituzionale dell’Unione dannoso per tutti, sia per tutelare i governi che sono anch’essi co-legislatori e detentori di un potere di nomina che non gli è dato per una pura questione di potere ma perché è il presidente della Commissione che deve, tra le tante cose svolte in collaborazione, trasformare in iniziative legislative le proposte politiche dei governi, dunque un’intesa che vada oltre la cortesia istituzionale è necessaria.
Il Parlamento, in base al risultato elettorale, ha scelto di iniziare la trattativa partendo dal nome di Jean-Claude Juncker il candidato del Ppe, partito che, pur avendo avuto un vero tracollo, si è confermato il primo per numero di deputati. Il Consiglio ha preso tempo, non ha detto “no”, anzi, Angela Merkel François Hollande hanno già detto di “si”, anche se senza alcun entusiasmo. Però, sia per dare il segno che delle regole scritte esistono sia perché non proprio tutti sono convinti e sia perché comunque si deve definire, come chiede Matteo Renzi, un programma di cinque anni e le caselle da riempire di nomi sono pure tante, si è deciso di andare con i piedi di piombo, e le consultazioni partiranno a fine mese, dopo la costituzione formale dei gruppi parlamentari.
In realtà c’è poco da consultare. In Parlamento al momento c’è una sola maggioranza realisticamente possibile, ed è la solita: Ppe e Pse, più chi ci vuol stare (di solito, i liberali). Tra centrosinistra e sinistra non ci sono i numeri per arrivare alla metà dei deputati, 376 e lo stesso accade dalla parte opposta. E’ un effetto perverso, ma assolutamente democratico, della presenza massiccia di forze populiste: hanno fatto in modo che l’unica maggioranza possibile sia quella di sempre.
Dunque ora sta al Parlamento “tenere”, arrivare fino alle consultazioni di fine mese con un saldo appoggio a Juncker (che, a quanto si dice nei corridoi di Bruxelles, Martin Schulz vorrebbe invece minare a suo favore). Se il Parlamento terrà il lussemburghese (appoggiato da Merkel) sarà il prossimo presidente della Commissione. Un popolare, come è Josè Manuel Barroso, appoggiato dalla Germania, come è José Manuel Barroso. Con un buon passato e però oramai molto meno entusiasta di José Manuel Barroso. Ma lo hanno indicato i cittadini. Dicono al Parlamento. Forse, visto l’esito elettorale e la praticamente assoluta ignoranza dei cittadini europei su chi sia Juncker cambiare cavallo in corsa con qualcuno meno strumento della Germania e che di una segnale di un qualche cambiamento non sarebbe dannoso. E potrebbe essere una scelta sempre proposta dal Parlamento.