Finalmente sembra che la BCE abbia deciso di agire dal lato dell’offerta di moneta. Sabato scorso Mario Draghi ha ribadito, a margine degli incontri annuali presso il Fondo Monetario Internazionale che la BCE dovrà presto fare politiche monetarie più espansive. La difesa dell’Euro “richiede ulteriori azioni di stimolo” ha dichiarato Draghi. Sembra che la BCE stia prendendo in considerazione due opzioni non alternative tra di loro: tassi di interesse negativi e operazioni di quantitative easing, cioè stampa di moneta.
La prima manovra mira a rendere negativi i tassi sui depositi che le banche detengono presso la BCE come riserve. Attualmente, questo tasso è pari a zero. Draghi ha accennato al fatto che la BCE lo potrebbe portare presto in negativo non si sa di quanto (gli esperti predicono una forchetta ta -0.1% e -0.25%). In pratica questo significherebbe che la BCE imporrebbe una sorta di tassa sulle riserve che le banche detengono presso la BCE per spingerle a fare prestiti alle imprese. Certo, potrebbe sembrare bizzarro che la BCE faccia pagare un tasso di interesse negativo sui depositi delle banche, ma non sarebbe certo la prima Banca Centrale a farlo. Lo hanno già fatto banche centrali molto serie come quella danese e quella svedese.
La seconda manovra riguarderebbe l’acquisto di titoli (bonds) sul mercato stampando nuova moneta. La BCE, fanno capire i suoi dirigenti, non si accontenterebbe di comprare solo titoli di stato, ma anche asset-backed securities del settore privato, cioè titoli di debito verso le piccole e medie imprese cartolarizzati. Non si sa come questo sia tecnicamente possibile, essendo attualmente questi titoli sul mercato molto scarsi. Sappiamo che nelle secrete stanze della BCE vari comitati sono al lavoro per studiare come debba essere fatto il QE in Europa dove non c’è un Tesoro centrale come negli Stati Uniti.
Speriamo che la BCE non segua i consigli dell’economista keynesiano tedesco Peter Bofinger che propone acquisti di titoli pubblici in proporzione al Pil di ogni singolo Stato. In questo caso chi ci guadagnerebbe di più sarebbe la Germania, che ha di già tassi di interesse a 10 anni vicino allo zero. L’acquisto di titoli pubblici – e sarebbe ora che qualcuno che conta in Italia lo dicesse, nel pieno rispetto dell’indipendenza della BCE – dovrebbe essere fatto non in base alle dimensioni delle economie dell’Eurozona, ma in base ai tassi di interesse pagati che divergono troppo. L’Italia, con un peso degli interessi sul debito di circa 80 miliardi, pari a più del 5% del Pil, è il Paese che ha più bisogno del QE. Se pagassimo l’1% di interessi sul Pil, come in Giappone e Germania, l’Italia pagherebbe 15-20 miliardi, risparmiando più di 60 miliardi. La posta in gioco nelle politiche di uscita dall’austerity e dalla crisi che ci attanaglia ormai da 7 anni si gioca tutta qua, ma l’Italia sembra ancora non rendersene conto.
So che la parola monetizzazione spaventa tutti ed è ancora considerata un tabù, nei salotti finanziari perbene. Ma se la BCE inizierà a fare operazioni di QE, la manovra avrà esattamente questo effetto: una monetizzazione parziale del debito, come è stato finora negli altri Paesi che hanno fatto questa manovra.
Per capire perché alla fin fine di monetizzazione si tratta quando parliamo di quantitative easing (QE) partiamo dall’unico grande paese europeo che ha fatto operazioni di QE in grande stile, il Regno Unito, tenendo presente che la Banca d’Inghilterra è una banca nazionalizzata di proprietà del Tesoro inglese. In questo Paese, la Banca d’Inghilterra (BOE), di comune accordo con il Tesoro, ha acquistato circa un quarto del debito pubblico inglese, per un ammontare pari a 375 miliardi di sterline che sono ora nell’attivo dello stato patrimoniale della BOE. In altre parole, si potrebbe dire che il Governo inglese ha richiesto alla Banca d’Inghilterra di sua proprietà di aiutarlo a finanziare i suoi debiti acquistando titoli del debito pubblico sul mercato. Togliendoli dal mercato e ponendoli nel suo attivo la Banca d’Inghilterra ha fatto salire il valore nominale dei titoli di debito e abbassato gli interessi. In pratica il Governo ha chiesto alla sua banca centrale di aiutarlo a finanziarsi a tassi politicamente bassi senza dover sottostare al ricatto dei famosi mercati internazionali, gli avidi bond vigilantes, come è successo in Italia nel 2011. In pratica, come risultato delle politiche di QE, il settore pubblico, il Tesoro ha pagato interessi a se stesso (e cioè la Banca d’Inghilterra) su un debito che deve a se stesso. E, aggiungiamo noi, non a un tasso di mercato, ma a un tasso stabilito da un Comitato in apparenza indipendente, la Monetary Policy Commission, nominato però dal Tesoro stesso e parcheggiato presso la Banca Centrale (e infatti, nonostante le economie siano simili gli inglesi pagano solo l’1% reale sul loro debito a lungo termine, noi il 3%).
Persino i navigati giornalisti del Financial Times, però, si sono scandalizzati quando il Ministro del Tesoro (Chancellor of the Exchequer) ha richiesto alla Banca d’Inghilterra di trasferire nelle sue casse i 35 miliardi che la BOE aveva guadagnato con le sue operazioni di QE. Forse avevano creduto veramente alla favoletta che la BOE fosse indipendente. Anche in Inghilterra i policy-makers sono soddisfatti dei risultati raggiunti. L’economia sta correndo al tasso del 3% annuo. Il tasso di disoccupazione sta velocemente scendendo verso l’obiettivo della Banca d’Inghilterra che è del 7%. Presto il reddito del Regno Unito dovrebbe tornare ai livelli pre-crisi, come hanno già fatto gli Stati Uniti e la Germania. Il Reddito nazionale italiano – ricordiamolo sempre – è ancora di circa il 10% inferiore a quello del 2007 e ci vorrà, a meno di miracoli, una decina di anni per tornare ai livelli 2007.
Cosa succederà ora al debito (i gilts) detenuti dalla BOE? Saranno rimessi sul mercato? Nel febbraio del 2012, Sir Mervyn King, allora Governatore della Banca d’Inghilterra, dichiarò alla stampa:
Non ho assolutamente nessun dubbio che quando il tempo arriverà di ridurre il livello dello stato patrimoniale della banca, ciò sarà molto più facile di quanto lo abbiamo aumentato.
Ma il nuovo Governatore, il canadese Mark Carney, non ha mai fatto nessun accenno alla riduzione del livello dello stato patrimoniale. Questo potrebbe essere fatto solo rivendendo i titoli sul mercato, ma qualunque segnale che questi titoli potrebbero essere rivenduti causerebbe il panico sui mercati. E quindi cosa succederà ai titoli detenuti dalla BOE? Nulla. Rimarranno lì per sempre. In pratica un quarto circa del debito inglese è stato monetizzato, se non ex-ante ex-post, anche se le autorità monetarie continueranno a non voler usare questa parolina. In pratica, però, di monetizzazione si tratta, perché è probabile che la liquidità aggiuntiva stampata dalla BOE rimarrà sul mercato più o meno per sempre, in modo permanente. Il Tesoro inglese potrà godere di un prestito a praticamente tasso zero grazie alla sua banca centrale. Se la banca centrale inglese possiede nel suo attivo una gran quantità di debito del Governo, di fatto non esiste neanche una passività da parte dello Stato. Poiché il Governo è proprietario della Banca Centrale, il debito si potrebbe dire è con se stesso e gli interessi che il Tesoro paga alla BOE gli tornano indietro come dividendi. Se il debito fosse convertito in un prestito a tempo indeterminato a zero interessi, nulla cambierebbe nella sostanza.
Ha fatto qualche danno collaterale questa operazione? Nessuno, a quanto mi risulta. E’ stata una azione di politica monetaria straordinaria (unconventional, come viene definita nel mondo anglosassone) a cui si è aggiunta una politica fiscale in deficit (ancora oggi il deficit statale del Regno Unito è superiore al 5%, dopo essere arrivato molto più in alto). Se il Regno Unito non avesse fatto le politiche che ha fatto, la disoccupazione sarebbe probabilmente simile a quella italiana. Anche per quanto riguarda l’inflazione, non sono apparsi pericoli all’orizzonte. L’inflazione inglese è a un sano 1,7%, ben lontana dallo striminzito 0,4% dell’Italia che ci fa temere che ci stiamo rapidamente dirigendo verso la deflazione.
Diverso ancora è il caso giapponese che forse è anche il più interessante, soprattutto per l’Italia che potrebbe diventare nei prossimi decenni un Giappone europeo.
Dagli anni Cinquanta fino alla fine degli anni Ottanta il Giappone è stato considerato da tutti un miracolo. Decine di libri sono usciti per cercare di capire quale fosse la ricetta del successo giapponese. Alcuni mettevano l’accento sullifetime employment, cioè la garanzia di un lavoro per una vita intera. Altri studiavano le politiche di pianificazione del mitico MITI, il Ministero per il Commercio Internazionale e l’Industria. Alla fine degli anni Ottanta, il Giappone sembrava il paese capitalistico perfetto. I lavoratori preferivano cantare l’inno aziendale piuttosto che scioperare. La Borsa era ai livelli massimi. Sia l’inflazione che i tassi di interesse erano bassi. Il reddito pro-capite era a un fischio di quello americano, il più alto del mondo. Era salito dal 20% di quello degli USA, negli anni Cinquanta, all’85%. L’unico problema era che in un albergo alla moda di Tokio un panino poteva costare 50 dollari. Il Giappone era diventato il paese più caro del mondo. Poi è successo quello che nessuno si sarebbe aspettato. La Borsa comincia a sgonfiarsi a partire dal 1990. Da allora la Borsa ha perso tre quarti del suo valore, mentre i prezzi dei terreni e degli immobili sono scesi di circa il 60%. Per quasi 20 anni l’inflazione è stata negativa di circa lo 0,5% l’anno. Il reddito pro-capite è sceso al 72% di quello americano.
Le somiglianze con il caso italiano sono tante. Oggi la deflazione ventennale del Giappone è considerata da molti un errore clamoroso nelle politiche macroeconomiche adottate.Il Governo si rifiutò di implementare politiche keynesiane di stimolo (al tempo, le idee di Keynes erano al loro minimo storico). Anche in Giappone i politici, gli economisti, gli uomini d’affari si accapigliarono per 20 anni sulle politiche giuste da adottare, senza trovare alcun consenso.
Poiché i prezzi scendevano di anno in anno, le persone tendevano a rinviare i consumi, creando così una flessione nella domanda. La Banca Centrale del Giappone sembrava impotente a fermare la deflazione. Ma a fine 2012 è stato eletto un premier, Shinzo Abe, che ha vinto le elezioni proponendo una nuova, radicale forma di politica monetaria, quella che oggi è stata ribattezzata Abenomics.
Nel mese di aprile 2013, Shinzo Abe nomina come nuovo governatore Haruhiko Kuroda, un outsider critico dell’ortodossia della banca centrale a cui da subito ordini di procedere a stampare moneta come mai prima si era visto (alla faccia dell’indipendenza delle banche centrali). Subito dopo Kuroda ha annunciato un piano di quantitative and qualitative easing (QQE) per differenziarsi dalle politiche americane. L’obiettivo è quello di raggiungere nel più breve tempo possibile, in un arco di tempo di due anni, un tasso di inflazione del 2%. Allo stesso tempo Kuroda si è impegnato sia a raddoppiare i titoli di debito del Tesoro giapponese detenuti dalla Banca e a raddoppiarne anche la maturità media portandola a 7 anni allo stesso tempo. Con questa massiccia operazione di acquisto di titoli, Kuroda ha portato in negativo il tasso di interesse di lungo termine (-1%), riducendo drasticamente gli interessi pagati sul debito. Nonostante in Giappone il debito sia quasi il doppio dell’Italia (240%) rispetto al Pil il costo degli interessi per servirlo incide attualmente per meno dell’1% del Pil (a confronto del nostro 5%). Oggi il Giappone ha un deficit nel surplus primario (cioè al netto degli interessi) pari al 8,6% e un deficit totale pari al 9,5%. Se il Giappone volesse portare il proprio deficit all’80% del Pil – con regole simili a quelle assurde introdotte con il Fiscal Compact – il Giappone dovrebbe trasformare l’8,6% del deficit primario in un surplus primario del 6,7%. Ma questo – lo dico con una certa sicurezza – non avverrà mai, non essendoci gente come Jens Weidmann da quelle parti. Se il Giappone lo facesse, l’economia, finalmente in ripresa dopo 20 anni, ricadrebbe in una severissima depressione. Non c’è nessun motivo per non ritenere che il debito giapponese detenuto dalla Bank of Japan – che dovrebbe arrivare al 60% a fine 2014, considerando le azioni di QE previste per quest’anno (70 milioni di dollari al mese) – non venga cancellato o tenuto nello Stato Patrimoniale della BoJ a tassi zero. Quando la deflazione è il vero pericolo, una permanente monetizzazione del debito è la cosa migliore, e dopo 20 anni questo i giapponesi l’hanno capito.
La BCE dovrebbe fare qualcosa di simile a quello fatto dalla BoJ, e cioè comprare bond sul mercato fino a quando l’inflazione non si avvicina al 2%. Una volta raggiunto questo livello la dimensione dell’attivo della BCE si dovrebbe stabilizzare. Non c’è nessun motivo per diminuirla. Succederebbe come negli Stati Uniti nel 1951. L’acquisto dei bond del Tesoro da parte della Fed venne interrotto, ma la Fed non si mise certo a vendere i titoli pubblici che aveva in pancia. E così il debito di guerra degli Stati Uniti venne monetizzato. Si potrebbe dire che gli Stati Uniti finanziarono la guerra solo stampando carta moneta.
La nuova politica sembra stia funzionando per ora su molti fronti. L’inflazione è salita all’1,5%. Ma la cosa più sorprendente è che all’improvviso l’economia, dopo 15 anni di stagnazione, si è rimessa a correre, mettendo nuovamente il Giappone tra le economie più performanti tra quelle considerate mature. E’ forse anche per merito di questi risultati, che il Giappone è riuscito ad accaparrarsi le Olimpiadi del 2020, battendo la Spagna e la Turchia?
Il caso della Fed è il caso più noto e non ne parleremo in dettaglio. Diciamo solo che oggi la Fed ha in pancia 2300 miliardi di dollari di debito. Già i mercati si erano innervositi quando la Fed aveva annunciato il famoso tapering a giugno del 2013, cioè una graduale riduzione dell’acquisto di titoli sul mercato. E i tassi d’interesse sul debito a lungo termine subito risalirono di un punto. Qualunque segnale che la Fed volesse rivendere al mercato questi titoli oppure non reinvestire quando i titoli vengono a scadenza, creerebbe panico sui mercati..
Che conclusioni possiamo trarre dalle diverse politiche monetarie perseguite dalla BCE e dalla FED, la Bank of England e la Bank of Japan? Premettendo che una buona parte dei problemi socio-economici dell’Europa, e in particolare di Paesi come l’Italia, sono dovuti anche a problemi strutturali e non solo alla politica monetaria eccessivamente restrittiva della BCE, dai numeri risulta evidente che le politiche espansive si sono rivelate più efficienti da molti punti di vista: senz’altro quello della crescita e dell’occupazione. La disoccupazione negli Stati Uniti, obiettivo primario della politica di QE, è caduta dal 12% al 6,7%, mentre nell’Euroarea è rimasta vicina al 12%. Sembra che su 4 milioni di nuovi posti di lavoro creati dal settore privato in America tra il 2009 e il 2012, la metà sono la conseguenza delle azioni della banca centrale e delle politiche di deficit spending del Governo. Il problema, semmai è in quali tasche è andato questo reddito vedi qui.
Di Elido Fazi