La partita finale delle nomine europee è appena iniziata. La campagna elettorale per il Parlamento europeo ha sparato i suoi primi colpi, ma le trattative per la pace successiva sono da tempo in corso. Vediamo qui di capire con che strumenti elaborare le nostre previsioni per gli assetti istituzionali principali nell’Ue.
Qualcosa possono ancora decretarlo gli elettori. Non molto, a dire il vero, dato che più o meno si sa come andrà: i popolari perderanno una robusta percentuale e parecchie decine di seggi, i Verhsocialisti guadagneranno qualcosa, ma ancora non è chiaro se riusciranno a superare in deputati quelli del Ppe. Su questo i sondaggi oscillano. I Liberali perderanno un venticinque-trenta dei loro attuali deputati, i verdi anche sono in calo, mentre in forte crescita c’è la sinistra guidata da Alexis Tsipras. Avranno poi successo le varie forze euroscettiche e populiste. Alcune di queste riusciranno ad aggregarsi, la maggioranza no, ma alcune battaglie comuni le condurranno. Non cambieranno le politiche dell’Ue, ma saranno una fastidiosa seccatura per gli uomini e le donne al comando.
Il Parlamento, anche con la sua volontà di esprimere il candidato alla presidenza della Commissione europea non è però l’unico attore. C’è anche il Consiglio europeo, l’organo formato dai governi, che è, e sarà nei prossimi mesi, a maggioranza popolare, con un potente battitore libero che è la Gran Bretagna. In base alle norme che regolano il funzionamento dell’Unione è il Consiglio che, “tenuto conto” delle elezioni parlamentari, esprime il candidato alla Commissione che dovrà avere il voto di fiducia del parlamento.
Ci sono poi almeno altri due elementi non secondari da tenere in conto: la provenienza geografica dei candidati alle top positions dell’Ue e, da qualche tempo, il loro genere. L’attuale vertice dell’Ue è così composto: un portoghese (Commissione), un belga (Consiglio), una britannica (Servizio esterno) e un olandese (Eurogruppo), volendo c’è anche un italiano alla Bce. Salta agli occhi che non c’è nessuno dell’Europa dell’Est in posizioni di primo piano. Questo vuol dire che, per un minimo di turnazione, il prossimo presidente della Commissione potrebbe non essere uno del Sud (Josè Manuel Barroso ha anche fatto ben due mandati), ma difficilmente sarà uno dell’Est, soci ancora troppo “freschi” dell’Ue. Ma, insomma, l’Est potrebbe prendere il posto del Sud, non essendoci, tra l’altro, nessun candidato ufficiale della zona Mediterranea a nessuna posizione. Non tutte le posizioni però sono aperte agli uomini e le donne dell’Est, poiché i grandi Paesi, come la Polonia, non sono ancora nell’euro, e questo è giudicato un handicap per puntare alla Commissione, o al Consiglio (evidentemente anche Eurogruppo e Bce sono esclusi).
C’è un fatto da considerare poi, che è una questione che già cinque anni fa tagliò la strada della presidenza della Commissione al belga Guy Verhofstadt (ora di nuovo candidato dei liberali): i britannici non vogliono una persona troppo europeista alla Commissione, e senza il loro voto non passa nessuno.
Dunque, volendo ora provare a fare un totonomine del tutto arbitrario (“Quale sarà la sorpresa?” ci domandammo in un editoriale di qualche tempo fa) che consideri anche le personalità dei candidati ora in gioco si può immaginare ragionevolmente di dire che Londra porrebbe un veto assoluto sul socialdemocratico Martin Schulz alla Commissione (ed infatti lui scalpita per questo, facendo votare alla Conferenza dei presidenti dei gruppi posizioni che invece sostengono che solo dal voto popolare dipenderà la scelta del capo del Barleymont). Jean-Claude Juncker, il candidato del Ppe invece non ha tutta questa voglia di andare a lavorare come un matto alla Commissione e sarebbe, obiettivamente, un perfetto presidente del Consiglio, essendo anche un popolare (con la maggioranza dei capi di governo) ma con un passato critico che è gradito ai non Ppe.
Dunque per le due top positions in realtà il gioco è molto aperto, ma è chiaro che questa volta uno deve essere espressione del Ppe e uno del Pse, il monocolore popolare è finito, quindi niente Christine Lagarde (a meno che non si cancelli anche Juncker, ma difficilmente il Parlamento potrebbe accettare). Ed è anche abbastanza chiaro che la via d’uscita dal veto britannico potrebbe essere una donna, che risolverebbe anche il problema del genere. Serve una donna non troppo forte politicamente, non troppo “ingombrante”, una sorta di Barroso al femminile. In molti vedono il ritratto della premier danese Helle Thorning-Schmidt, socialdemocratica e moglie del figlio dell’ex ministro e commissario europeo Laburista britannico Neil Kinnok, cosa che a Londra, tutto sommato, è gradita; con la scusa del veto britannico si potrebbe superare Schulz (che resta al Parlamento?), non amato anche da altri, a partire da Angela Merkel, e senza un passato da premier. Resta il problema del Servizio esterno. Potrebbe andarci Schulz come come ripiego, ma quella sembra, ad un primo esame, la casella perfetta per uno dell’Est. Il candidato più noto è il polacco Radoslaw Sikorski, popolare e con un ottimo curriculum. Ma queste sono solo supposizioni.