Tutta la stampa europea ha seguito con attenzione le elezioni turche al cui risultato era legata la credibilità del primo ministro Erdoğan e il suo futuro politico. Malgrado le schiaccianti prove di corruzione che macchiano il leader turco e tutto il suo governo, malgrado la sua putiniana svolta autoritaria che è arrivata fino alla censura di Internet, la Turchia ha massicciamente votato in favore di Erdoğan e le accuse di brogli elettorali non cambieranno il risultato.
I negoziati di adesione restano quindi incagliati in una pericolosa fase di stallo che rischia di allontanare ancora di più Ankara da Bruxelles. In questa deriva la Turchia ha tutte le colpe ma l’UE ha tutto l’interesse a cambiare marcia se non vuole perdere contatto con un paese di 75 milioni di abitanti che non può più essere considerato un estraneo in Europa. Poco importa qui stare a dissertare sul significato geografico del nome Europa. È la geopolitica che dà i nomi ai luoghi e la nostra Europa non è quella del Medio Evo. Se vogliamo governare il nostro futuro dobbiamo prendere a bordo anche la Turchia. Perché un ravvicinamento sia possibile non basta che Ankara rispetti i nostri requisiti, fra cui i sacrosanti criteri di Copenaghen, bisogna che noi cominciamo a cambiare mentalità nei confronti dei turchi. Per prima cosa serve maggiore informazione in Europa sul paese e sulla sua storia, sui tanti modi in cui siamo già profondamente legati e sugli interessi che abbiamo ad esserlo ancora di più.
Il pregiudizio dell’incompatibilità della Turchia mussulmana con l’Europa cristiana è anacronistico e deleterio. L’Islam, come la Cristianità, ha mille sfumature e la variante turca è quella più laica, più vicina alla nostra equivalente variante cristiana, più conciliante con i valori della modernità, più suscettibile di compromesso. Un bigotto cattolico lucano degli anni Cinquanta non era più illuminato di un odierno ulema di Erzurum. Il progresso economico, la mobilità sociale e l’istruzione da noi hanno fatto la differenza e smussato i pregiudizi. Oggi agganciare la Turchia a noi vuol dire non lasciarla andare alla deriva degli integralismi. Dobbiamo abituarci a pensare che la Turchia non è tanto un ponte verso l’Asia, come abbiamo sempre pensato, ma un pianeta vero e proprio e che è nella nostra orbita. Può svolgere un ruolo politico nel Mediterraneo ed aiutarci a riequilibrare l’UE verso sud. Può contribuire a stabilizzare i Balcani, dove pochi sanno che è generalmente ben vista, per motivi storici e culturali. L’antica Rumelia resta ancora oggi il luogo di origine di moltissimi turchi. Può permetterci ingerenza nel Medio Oriente e influenza nel seguito delle rivoluzioni arabe. Dopo l’ubriacatura delle adesioni del 2004 l’Europa sembra oggi satura e espone il tutto esaurito. La Germania di Kohl prima e la Francia di Sarkozy poi hanno ciecamente stroncato le ambizioni europeiste turche. Come soluzione transitoria si potrebbe allora contemplare l’idea di Sinan Ülgen, un osservatore del Centre for Economics and Foreign Policy Studies che propone per la Turchia una sorta di “adesione virtuale”[1].
Si tratterebbe di una forma di associazione che avrebbe tutti i connotati dell’adesione ma senza conferire alla Turchia lo stesso peso politico e senza imporle gli stessi vincoli in materia di legislazione comunitaria. Sinan Ülgen sostiene che la Turchia e l’UE potrebbero così approfondire la loro azione comune in campi come la politica estera, di sicurezza e di vicinato, allargando l’unione doganale e accogliendo la Turchia nei negoziati commerciali con paesi terzi. In questa prospettiva, l’abolizione dei visti avrebbe il forte effetto di far sentire più vicina l’Europa ai cittadini turchi ed è forse il primo passo da compiere. La soluzione della questione di Cipro è il passo successivo, ma diventa a portata di mano se il quadro generale è quello di una nuova “adesione virtuale”. Nel frattempo la nostra società deve imparare a guardare alla Turchia con occhi diversi e in questo è essenziale il ruolo delle istituzioni, della stampa, della scuola, di quello che una volta si chiamava l’establishment e che sembra oggi evaporato. Ricordo che da bambino alle scuole elementari ci insegnavano le nuove regioni d’Italia, ce ne facevano riconoscere la sagoma sulla carta muta, recitare i nomi di fiumi, laghi e monti. Questo contribuiva a indurre familiarità, conoscenza, attrattiva: era il nostro mondo. Perché non compiere un’operazione simile con la Turchia e cominciare a ricordare i nomi di luoghi oggi turchi che sono la spina dorsale della nostra cultura e della nostra storia? Cilicia, Lidia, Panfilia, Ponto, Frigia, Paflagonia, Caria, Galatia, Bitinia e Meonia sono tutte regioni dell’Europa profonda.
Diego Marani