Nella prima parte di questo blog avevamo sostenuto che è probabile che nel 2014 anche le politiche monetarie della Banca Centrale Europea (bce) dovranno diventareunconventional, e cioè che anche la bce sarà costretta a fare politiche di quantitative easing, ovvero stampa di moneta, come stanno già facendo usa, Giappone e Regno Unito. Lo dovrebbe fare semplicemente per motivi istituzionali: raggiungere l’obiettivo di un’inflazione media del 2% in Europa. Nell’Eurozona, quella che viene chiamata core inflation(esclude prodotti i cui prezzi sono più volatili come il costo dell’energia e i prodotti alimentari) è scesa al record di tutti i tempi dello 0,7%.
Mario Draghi ha più volte sostenuto che la bce non crede che la disinflazione nei Paesi del Sud dell’Eurozona possa portare a un periodo prolungato di prezzi in caduta libera come quello che ha piagato il Giappone per vent’anni. Ma ne siamo sicuri? L’Eurozona non è un’unica area come il Giappone. La Grecia, con un’inflazione negativa dell’1,7%, è già in deflazione. Altri, come l’Italia (con un’inflazione allo 0,7%), rischiano di cadere nella trappola deflazionistica se qualcosa non viene fatto subito dalla bce. Come sosteneva sempre Keynes, l’inflazione non è una bella cosa, ma la deflazione è un mostro molto peggiore. E comunque, un’inflazione sotto al target di più del 100% non è una bella cosa.
Come dice Stephen King, il capo economista della banca hsbc (il suo ultimo libro, La fine dell’era dell’affluenza, uscirà in Italia tra un paio di mesi), «Noi non prevediamo una discesa in una situazione di deflazione vera e propria, ma allo stesso tempo stiamo sottolineando il rischio che l’inflazione rimanga troppo bassa o che continui a scendere nei prossimi due anni». Se l’inflazione dovesse continuare a scendere, Draghi non avrà più nessuno strumento per agire se non politiche unconventional. Come ha scritto «The Economist» nel primo numero dell’anno, il 2014 sarà l’anno in cui anche la bce dovrà mettere in campo qualche forma di quantitative easing.
«The Economist» non è il solo a sostenere questa posizione. La scorsa settimana, quella che viene ormai descritta come il grillo parlante che parla alle coscienze dei global policy makers, Christine Lagarde, il capo del Fondo Monetario Internazionale, ha sfidato i banchieri centrali ad agire con decisione per sventare l’orco della deflazione. Un’ulteriore caduta dei prezzi sarebbe disastrosa per l’economia mondiale, ma soprattutto per Paesi come l’Italia, che hanno un enorme debito pubblico rispetto al reddito nazionale. E lo stesso vale per i debiti delle famiglie e delle imprese. Anche Lagarde suggerisce alla bce di iniettare moneta nel sistema. Cioè fare politiche di quantitative easing.
Ma che tipo di quantitative easing dovrebbe fare la bce? Uno schema simile a quello portato avanti dalla troika keynesiana (Stati Uniti, Regno Unito e Giappone) oppure immaginare qualcosa di più rapido ed efficiente per far ripartire la domanda e i prezzi di Paesi come l’Italia? Anticipiamo subito che in questo pezzo noi sosterremo la tesi che per l’Europa le politiche unconventional della bce dovrebbero essere diverse, un genere di quantitative easing che gli anglo-americani chiamano Overt Money Financing (omf) oSovereign Money Creation, ma che in italiano possiamo chiamare monetizzazione del debito. Gli effetti per la bce sarebbero simili a quelli del quantitative easing che potremmo ormai chiamare classico, cioè un aumento sia dell’attivo che del passivo nel balance sheet della bce, ma i suoi effetti sull’economia avrebbero un impatto diverso.
Non si tratta di nulla di nuovo. L’omf è uno strumento monetario vecchio come il cucco. Quando John Maynard Keynes lo consigliò al presidente Roosevelt nel 1933, con una lettera aperta al presidente sul «Times» di Londra, non era certo il primo a sostenere questa tesi. Ma in tempi recenti è stato il presidente della Fed, Ben Bernanke, a riportarlo in auge in un famoso discorso fatto alla Banca Centrale Giapponese nel 2003. Oggi c’è un certo consenso sul fatto che se il Giappone avesse introdotto operazioni di Overt Money Financing, come suggerito da Bernanke, sarebbe oggi in una situazione definitivamente migliore, con un più alto livello dei prezzi, un pil più alto, sia in termini reali che in termini nominali, e un debito pubblico più basso in rapporto al pil.
Vediamo cosa suggeriva Bernanke:
1) Si sarebbe dovuta ridurre in modo drastico la tassazione su imprese e famiglie, riducendo così in modo drastico il cuneo fiscale, con l’acquisto di titoli di debito pubblico a zero interesse da parte della banca centrale, così che la riduzione del cuneo fiscale avrebbe potuto essere finanziata con una riduzione drastica del servizio degli interessi. Si potrebbe anche dire che la riduzione del cuneo fiscale verrebbe finanziata con un aumento della base monetaria.
2) Dovrebbe essere reso chiaro che «una parte consistente o tutto l’aumento della base monetaria dovrebbe essere visto come permanente».
3) È importante che il punto precedente sia reso chiaro sia alle famiglie che alle imprese, di modo che esse spendano la riduzione fiscale poiché «non c’è nessun aumento del servizio del debito che deve essere ripagato con tasse future».
Secondo Bernanke, questa politica di monetizzazione porterebbe a un’inevitabile e rapida riduzione del rapporto debito pubblico/pil, poiché il debito rimarrebbe invariato mentre ilpil nominale comincerebbe a crescere rapidamente con l’aumento della domanda. Bernanke ci tiene a sottolineare che oltre che per il cuneo fiscale, la monetizzazione potrebbe anche essere usata per supportare un programma di spesa per investimenti e per facilitare ristrutturazioni industriali.
Oltre a Bernanke la Overt Money Financing (omf) ha anche altri fan. Uno è un signore, Adair Turner, Chairman della Financial Services Authority – l’ente responsabile per la regolamentazione dei servizi finanziari nel Regno Unito – fino alla sua abolizione nel marzo 2013 e oggi membro della Financial Policy Committee del governo inglese, che in un suo recente discorso ha sostenuto che senza omf (da non confondere con la omt, Outright Monetary Transactions, della bce) alcuni Paesi europei rischiano decenni di depressione: «La monetizzazione non è necessariamente evil, diabolica, ma uno strumento potenzialmente necessario nelle circostanze in cui ci siamo cacciati… dobbiamo tirarla fuori daltaboo box per considerare se e in quali circostanze può giocare un ruolo appropriato, ma dobbiamo essere sicuri che prima le autorità abbiano disegnato le regole che potrebbero mettere sotto controllo un suo abuso».
Ma ormai ci sono decine di economisti in giro per il mondo che condividono questa tesi, che è anche quella di Martin Wolf, il capo economista del «Financial Times», il quale in un articolo del 2013 ha sostenuto: «È impossibile giustificare il punto di vista convenzionale che la fiat money (cioè moneta che può essere prodotta con un soffio dalle banche centrali) debba operare esclusivamente attraverso l’odierno sistema delle banche. Perché dovrebbe la moneta creata dallo Stato essere usata in modo predominante per supportare la creazione di moneta delle banche per prestiti spesso irresponsabili?». E anche la Commissione Economica e Monetaria del Parlamento europeo (rapporteur Gianni Pittella) ha suggerito alla bce di iniziare a fare politiche di Overt Money Financing (vedi il draft report presentato l’undici giugno), anche se poi in seduta plenaria, su pressione dei deputati tedeschi del partito popolare, il punto sull’omf è stato cassato.
Ma andiamo con ordine e vediamo dapprima perché le politiche monetarie tradizionali finora praticate dalla bce non funzionano più. Daremo poi uno sguardo alle politiche non-convenzionali di quantitative easing così come sono state fatte a partire dal 2009. E poi sosterremo la tesi che la bce non dovrebbe adottare questo tipo di politiche monetarie, bensì quelle che si rifanno all’omf.
Poiché i singoli Paesi dell’Euro non hanno più a disposizione lo strumento della politica fiscale per stimolare la domanda, l’unico strumento di politica economica che resta a disposizione è la politica monetaria della bce. Ma se anche questa non funziona più, cosa può fare la bce per raggiungere l’obiettivo dell’inflazione al 2% e rilanciare la domanda aggregata? Oggi, sembra, quasi nulla.
Perché le politiche monetarie convenzionali non funzionano più? Tradizionalmente, queste ultime cercano di influenzare la domanda aggregata dell’economia attraverso i tassi di interesse. Se questi scendono dovrebbero avere l’effetto di aumentare i prestiti fatti dalle banche alle imprese e ai cittadini. In genere, le banche centrali portano avanti la politica monetaria agendo sul tasso di interesse di base (attualmente, da dicembre, lo 0,25%). Un abbassamento di questo tasso dovrebbe portare a un aumento dei prestiti bancari, e quindi a un aumento dell’offerta di moneta, quella che viene chiamata broad money, che, oltre alle banconote e le riserve delle banche centrali, comprende anche i depositi bancari. Dobbiamo subito dire che, fatto 100 l’ammontare totale della broad money nell’economia, oltre il 90% è costituito da depositi bancari. Nella teoria economica tradizionale si sostiene che un abbassamento del tasso di interesse dovrebbe incoraggiare le banche a fare prestiti e a creare così nuova moneta, e quindi più spesa e più domanda.
Ma dopo la crisi del 2007-’08, questo schema non ha più funzionato. La bce ha portato quasi verso lo zero il tasso di interesse, ma non si è verificato nessun aumento nell’offerta di moneta (broad money). Si è inceppata, come ripete spesso il presidente della bce Mario Draghi, la cinghia di trasmissione tra politica monetaria e offerta di moneta. Più la bceha ridotto i tassi e più le banche hanno continuato a fare deleveraging, cioè non soltanto non concedono prestiti, ma chiedono alle piccole e medie imprese di restituire i prestiti fatti. Di concedere mutui ai privati cittadini neanche se ne parla. Insomma, la politica monetaria convenzionale è diventata “impotente”, ecco perché tutti i Paesi dell’Occidente, con l’eccezione dell’Europa, hanno fatto ricorso a politiche non-convenzionali.
Come funziona una politica anti-convenzionale come quelle fatte finora sotto il nome di quantitative easing (qe)? Di solito questa politica prevede l’acquisto di financial assets(cioè titoli di debito pubblico, ma non solo) già emessi sui mercati. In questo modo le banche centrali immettono nuova moneta nell’economia, aumentando la base monetaria, e cioè sia l’attivo (titoli acquistati) che il passivo dello stato patrimoniale (balance sheet). Negli Stati Uniti, la Fed ha acquistato titoli per 3.200 miliardi di dollari a partire dal 2009, e la Bank of England titoli per 375 miliardi di sterline, circa un quarto del suo reddito nazionale. Uno degli effetti di queste politiche è stato quello di influire sui tassi di interesse di lungo periodo. La domanda di Bond da parte delle banche centrali ha fatto aumentare il loro prezzo e, di conseguenza, diminuire il tasso di interesse. Allo stesso tempo, il qeclassico ha fatto aumentare il prezzo dei financial assets, aumentando la ricchezza di coloro che li possiedono. Si stima che le politiche di qe nel Regno Unito abbiano portato a un aumento di ricchezza di circa 600 miliardi di sterline, circa 10.000 sterline a testa. Ma poiché il 5% delle famiglie possiede circa il 40% degli asset, le politiche di qe hanno aumentato la ricchezza di questo 5% di circa 80.000 sterline, mentre il restante 95% ha visto un aumento della sua ricchezza di poco più di 6.000 sterline a testa. Chi non possedeva asset non ha guadagnato nulla. Insomma, una delle caratteristiche del qe è che aumenta le disuguaglianze nel reddito dei cittadini. Nel Regno Unito, il QE ha avuto un effetto sui consumi e sulla disoccupazione, ma molto al di sotto delle aspettative. 375 miliardi, circa il 26% del pil, di quantitative easing hanno portato a un aumento della domanda che si stima tra i 40 e i 50 miliardi di spesa aggiuntiva. Non sappiamo cosa sarebbe successo se non si fossero praticate queste politiche. Sicuramente l’andamento dell’economia e dell’occupazione sarebbe stato peggiore. D’altra parte, però, è difficile sostenere che questa politica sia stata particolarmente efficiente. La maggior parte della nuova moneta creata è stata usata per fini meramente speculativi.
Esiste anche un altro argomento contro le politiche di qe fatte sino ad ora. Oggi viene quasi unanimemente riconosciuto che una delle cause che hanno portato al crollo del 2007-’08 è stata l’eccessiva creazione di credito da parte delle banche private, che, come abbiamo visto, costituisce oggi oltre il 90% dell’offerta di moneta totale (broad money). Se l’economia è entrata in crisi a causa di un eccesso di credito creato dai privati, fuori dal controllo delle autorità monetarie, non è pericoloso cercare di curare la malattia con un’altra massiccia dose di credito privato?
Per tutti questi motivi, riteniamo che la migliore politica unconventional della bce non debba essere quella del tipo tradizionale di qe usata finora, ma di un altro tipo, l’Overt Money Financing. Poiché politiche fiscali non sono più permesse all’interno dell’Eurozona, e poiché le politiche di qe non hanno avuto, nei Paesi che le hanno introdotte, gli effetti sperati sulla domanda, bisogna essere ancora più creativi e usare l’immaginazione al meglio. Ripetiamo alcuni concetti di base. La moneta è infinita, come l’aria, e può essere creata come per magia dalle banche centrali. Ma le banche centrali non sono in grado di influire direttamente sulla domanda aggregata. Senza l’aiuto del settore privato (banche, imprese e famiglie) anche la bce è impotente.
Vediamo come dovrebbe funzionare una politica monetaria basata sull’Overt Money Financing. Prima cercheremo di capire come funziona questa politica e poi ragioneremo su come potrebbe essere implementata nell’Eurozona. Useremo come esempio l’Italia, ma lo stesso ragionamento vale per tutti gli altri Paesi. Ogni anno, la bce dovrebbe stabilire l’ammontare di creazione di moneta mensile, come fa la Fed oggi, che aumenta la moneta di 85 miliardi di dollari al mese, che saranno presto ridotti a 75. Naturalmente, non essendoci (ancora) uno Stato Federale in Europa, e quindi non essendoci un Tesoro europeo, ed essendo il debito pubblico non in capo a un Tesoro federale ma ai singoli Stati, bisognerebbe decidere propedeuticamente come la creazione di moneta debba essere attribuita a ognuno dei diciotto Paesi dell’Eurozona. Questa è naturalmente una decisione politica e ci torneremo dopo. Per adesso vogliamo solo spiegare come potrebbe funzionare tecnicamente una politica monetaria di questo genere. Supponiamo per ora che la bcedecida di immettere nel 2014 1.000 miliardi di nuova moneta nel sistema (un valore più o meno simile a quello degli usa) e che all’Italia ne spetti una quota di 200 miliardi. Il Tesoro italiano dovrebbe emettere 200 miliardi di titoli di nuovo debito di un tipo particolare che potremmo chiamare ddt (Doni del Tesoro) oppure ddc (Doni del Cielo) per distinguerli dai Buoni del Tesoro (bot) e dai btp, buoni del Tesoro a lunga scadenza. Poiché ddt ricorda un popolare sterminatore di mosche degli anni Sessanta, useremo d’ora in poi ddc, anche se ricorda in maniera (inquietante?) la nostra vecchia dc. Questi titoli dovrebbero avere le seguenti caratteristiche: essere titoli senza scadenza e a tasso zero. Labce poi comprerebbe questi titoli accreditando 200 miliardi di euro sul conto corrente dello Stato. L’attivo della bce aumenterebbe di 200 miliardi e il passivo dello stesso ammontare. In pratica, l’acquisto dei ddc avverrebbe con creazione di nuova moneta. Poiché i ddc non hanno una scadenza e non pagano interesse, si potrebbe dire che essi non costituiscono nemmeno più un debito, ma la bce dovrebbe avere il potere di fare l’operazione inversa, e cioè rivendere i ddc allo Stato italiano, se questo fosse necessario per motivi di policy, come ad esempio un’inflazione che sfora gli obiettivi stabiliti. Naturalmente si potrebbe pensare anche a ddc con un tasso minimo (0,25%).
Qualcuno potrebbe chiedere: ma come reagirebbero i tedeschi se gli andiamo a raccontare una storia come questa? Il primo passo dovrebbe essere quello di convincerli, come dice Adair, che tra tutte le bad options questa è la migliore. Certo non posso convincerli io. Ma Enrico Letta, Matteo Renzi e i suoi collaboratori che si occupano di Europa dovrebbero cominciare a farci qualche riflessione, perché, per come la vedo io, l’Italia non ha tante altre strade da seguire. Cosa ci perderebbe la Germania? Nulla, in pratica, se non il fatto che gli utili della bce potrebbero essere più bassi di quelli che sarebbero stati altrimenti. Significherebbe un piccolo sacrificio per la Bundesbank, che è il maggior azionista della bce. Quest’ultima, al contrario di quello che dice e pensa, ci ha guadagnato più di ogni altro Paese con le operazioni di acquisto dei titoli italiani e spagnoli fatta nel 2010, quando lo spread era alto e il valore nominale dei nostri btp basso. Questa è stata un’operazione di solidarietà, al contrario. Chi più ci ha guadagnato è stata la Bundesbank, con una quota pari al 27,1%. In pratica ci guadagna la Germania, che invece di essere il Paese che offre solidarietà, diventa quello che ne approfitta. La bce e i tedeschi non possono continuare a raccontarci la favoletta che le politiche monetarie sono neutrali. Questa è la «più grande illusione del secolo». Le politiche monetarie, negli usacome in Europa, creano vincitori (i ricchi in America e la Germania in Europa) ma anche losers, perdenti, e l’Italia, anche se ora ha i conti pubblici in ordine, è il più grande losertra tutti i paesi dell’Occidente. Qui non si tratta di finanziare il deficit pubblico con la stampa di moneta (se gli interessi sul debito non fossero superiori al 2,5% del pil avremmo un equilibrio di bilancio perfetto, al lordo degli interessi). Link all’ultimo art di tom.
Naturalmente, non sono così naif da pensare che l’omf sia qualcosa che possa essere facilmente adottato in Europa, dove, come sappiamo, non c’è il debito di un Tesoro centrale, ma esistono debiti di singoli Stati. È ovvio che qualunque intervento di omf in Europa avrebbe un effetto redistributivo (ma tutte le azioni delle banche centrali hanno effetti redistributivi, in America e Regno Unito hanno favorito i ricchi, in Europa la Germania) e quindi scatenerebbe battaglie politiche. Per poter implementare una politica di omfbisognerebbe arrivare a un accordo sull’appropriato livello di monetizzazione di ogni Paese, decisione altamente politica e non facile da raggiungere nel momento in cui in Europa stanno rinascendo pericolosi nazionalismi. Cosa dovremmo prendere in considerazione? Il livello del debito? Oppure un mix di variabili che comprendono la disoccupazione, il servizio del debito, il suo rapporto al pil? Credo che si debba trovare la soluzione in un’equazione che prende in considerazione uno stock (quello del debito), due flussi, interessi pagati annualmente e il reddito nazionale, il rapporto tra debito e pil e tra interessi per servire il debito, il tasso di inflazione e il tasso di disoccupazione. La Germania paga il 2,5% del pil circa per servire il suo debito, che in termini assoluti è più alto di quello italiano, l’Italia il 5,5%. È chiaro che l’Italia dovrebbe avere una quota percentuale di ddc più alta della Germania. In Olanda l’inflazione è vicina all’obiettivo della bce (1,7%) mentre in Grecia è di -1,7%; la disoccupazione in Austria è inferiore al 5% e in Grecia è quasi al 28%. Dovrebbe essere ovvio che la Grecia dovrebbe avere più peso nella ripartizione e così via. Volendo, una formula ragionevole si può facilmente trovare.
Chi dovrebbe decidere l’ammontare totale per l’Eurozona di questa forma di creazione di moneta? Naturalmente, dovrebbe essere la bce (e se avesse più coraggio potrebbe anche assumersi direttamente la difficile ripartizione dei ddc). Poiché quest’operazione dovrebbe tendere in un primo momento a raggiungere l’obiettivo che la stessa bce si è data per l’inflazione, essa rientra già tra i suoi compiti istituzionali. Ogni Paese potrebbe poi decidere come usare il risparmio avuto sulla spesa pubblica con una riduzione degli interessi pagati. Per l’Italia, tutto, come abbiamo già detto, dovrebbe andare a ridurre il cuneo fiscale. Ma altri Paesi potrebbero decidere di usare questo risparmio per fare investimenti oppure aumentare le spese per la ricerca, la riduzione del debito o qualunque altro progetto abbiano a cuore. Ogni governo dovrebbe presentare ex-ante alla bce il suo piano su come spendere i risparmi avuti con i Doni del Cielo (ddc) così che la bce possa valutare l’impatto sulle variabili macroeconomiche di ogni Paese. Ma la bce non dovrebbe mettere bocca su come ogni governo decide di usarlo, questo risparmio.
L’obiettivo della politica di monetizzazione è quello di rilanciare la domanda aggregata attraverso un aumento della spesa e quindi del reddito nominale. Naturalmente l’aumento del reddito nazionale potrebbe avvenire sia con un aumento dell’inflazione che con l’aumento della produzione. Certamente, l’aumento di produzione, cioè una crescita reale del volume del pil, sarebbe preferibile, ma se l’inflazione è sotto target, anche un aumento di quest’ultima è desiderabile. Quanto della crescita sia aumento dei prezzi e quanto aumento dei volumi di attività dipenderà dalla capacità inutilizzata nell’economia (output gap). In Italia, dove la produzione industriale è scesa di un quarto dal 2007, credo che ci vorranno numerose mani annuali di omf prima che si raggiunga l’obiettivo di inflazione del 2%.
Vediamo ora quali potrebbero essere gli effetti macroeconomici di una manovra di omf. L’aumento del reddito disponibile dei cittadini attraverso una riduzione fiscale porterà a un aumento della domanda più o meno alto a seconda della loro propensione al consumo e delle loro preferenze di consumo. In qualunque caso ci sarebbe un effetto moltiplicatore. Se qualcuno usa il reddito aggiuntivo per fare una ristrutturazione della casa che aspettava di fare da anni, si avrà un aumento delle persone che lavorano nell’edilizia, che a sua volta stimolerà altri consumi. Se qualcuno lo usa per andare più spesso al ristorante, aumenterà il reddito dei ristoratori. Ogni giro di consumo verrebbe ovviamente tassato e porterebbe a un aumento degli introiti fiscali. L’aumento del reddito nominale porterà poi a un aumento delle imposte sul reddito. Quindi l’omf contribuirà ad aumentare il reddito nazionale e ridurre ulteriormente il peso di servire gli interessi sul debito pubblico.
Quanta parte della domanda aggiuntiva ricadrà sull’economia interna e quanta su un aumento delle importazioni dipenderà dalla propensione a importare di ogni Paese. Ma l’aumento delle importazioni potrebbe essere compensato dal fatto che in Europa l’Euro continuerà probabilmente ad apprezzarsi e dal fatto che, con la riduzione del cuneo fiscale, la riduzione del costo del lavoro per le imprese dovrebbe stimolare le esportazioni. Diversa sarebbe la situazione se il Regno Unito facesse operazioni di omf, che potrebbero portare a un deprezzamento della Sterlina e a un aumento del deficit della bilancia commerciale. L’Italia ha oggi la parte corrente della bilancia dei pagamenti con un piccolo surplus di circa 10 miliardi che, secondo Keynes, è la situazione ottimale. Non tutti i Paesi del mondo possono avere un surplus come quello tedesco di 250 miliardi, per il semplice motivo che a ogni surplus deve corrispondere un deficit.
Naturalmente, l’aumento della domanda interna cambierà le aspettative degli imprenditori rispetto ai consumi futuri, e potrebbe risultare in un’aumentata propensione a investire, o comunque, anche a parità di capitale investito a un aumento dell’occupazione. Anche se rispetto alle politiche di quantitative easing la monetizzazione le scavalca andando direttamente a incidere sui flussi di reddito di chi lavora, anche le banche ne beneficerebbero in grande misura. Aumenterebbe di molto la probabilità che i crediti cosiddetti incagliati possano essere rimborsati. Questo aumenterebbe la profittabilità delle banche riducendo il loro leverage e rendendo il sistema bancario più resistente e sicuro. Anche i prestiti diventerebbero meno rischiosi.
Infine, ciliegina sulla torta, anche l’omf, come il qe più classico, avrebbe l’effetto di abbassare i tassi di interesse di lungo periodo, riducendo ulteriormente il peso degli interessi che dobbiamo pagare ogni anno per servire il nostro debito pubblico. Infatti, una parte dell’aumento nell’offerta di moneta porterebbe anche a un aumento nella domanda di titoli pubblici di debito da parte delle famiglie.
In teoria, l’Eurozona potrebbe sembrare l’ultimo posto dove cominciare a sperimentare con politiche monetarie-fiscali nuove. Ma se non lo facciamo, noi in Italia saremo costretti a una lunga stagnazione, con conseguenze sulla stabilità politica, e quindi sulla stabilità dell’intera Unione Europea, che non riusciamo ad immaginare. Bene ha fatto il Parlamento Europeo lo scorso anno a mettere questi temi all’ordine del giorno. E bene farà il prossimo Parlamento a riproporli subito e questa volta a non farseli emendare da qualche ottuso deputato conservatore tedesco.
Ci vorrebbe oggi un politico di grande statura che riuscisse a farsi leader in Europa di questa opzione e avesse la capacità di saper essere convincente nei confronti di tutti i cittadini europei e degli altri capi di Stato che questa, pur rimanendo sempre una bad option, è la meno dannosa nella situazione attuale. Gli argomenti politici non mancherebbero a un Paese come l’Italia. Siamo stati i primi a ratificare il Fiscal Compact in Europa, impegnandoci a mantenere in futuro un bilancio in pareggio. Al netto degli interessi, il nostro bilancio statale ha già uno dei più alti surplus primari. La riforma delle pensioni è una delle riforme più drastiche che siano state fatte in Europa e il suo impatto si farà sentire soprattutto a partire dal 2020. Con una riduzione del servizio del debito pubblico della metà o anche di più, un terzo di quello che paghiamo oggi, il nostro bilancio diventerebbe uno dei più virtuosi in Europa. Si tratta di sanare una situazione debitoria ormai insostenibile creata nel passato e allo stesso tempo assicurare che, una volta arrivati al 60% del debito/pil, ritenuto a torto o a ragione un livello sostenibile, non si tornerà mai più agli eccessi del passato. Il Fiscal Compact inserito nella Costituzione dovrebbe essere una garanzia.
Chi può oggi portare avanti una posizione del genere se non l’Italia, uno dei tre grandi Paesi fondatori dell’Europa, dopo che il presidente socialista Hollande l’ha fatta fuori dal vaso e non certo per le sue avventure (o disavventure) amorose? Hollande oggi sembra essere tornato ai primi dell’Ottocento e all’unico economista di nome che la Francia ha avuto in questi due ultimi secoli, J. B. Say (Keynes pensava che l’unico altro economista francese di rilievo fosse Montesquieu). Ha addirittura rispolverato le peggiori teorie dei reaganiani degli anni Ottanta, e cioè screditato la legge di Say. «L’offre crée meme la demande», ha dichiarato di recente lasciando di stucco mezzo mondo. Il fascino di Julie Gayet deve avergli dato alla testa. «Mi sembra che fino ad epoca recente», scrive Keynes, «le dottrine legate al nome di J.B. Say abbiano dominato ovunque nella scienza economica, ben più di quanto si creda… Say suppone in modo implicito che il sistema economico operi costantemente a capacità piena, talché un’attività nuova sarebbe sempre sostitutiva e mai aggiuntiva di altre attività. […] Ora appare evidente che una teoria che poggia su una simile base non si addice allo studio dei problemi della disoccupazione».
E vero che l’Italia sarebbe probabilmente il Paese che ne beneficerebbe di più, e qualcuno potrebbe storcere il naso, però è anche vero che ne beneficerebbero tutti i Paesi del Sud. Ma il Paese che ne beneficerebbe più di tutti è la Germania. Purtroppo è difficile farglielo capire, di questi tempi.