Non so se avete seguito una settimana fa tutta quella polemica su Renzi, che appena morto Mandela, ha pensato bene di pubblicare su Facebook la foto che li ritraeva insieme a Johannesburg nel 2012, in occasione della consegna del fiorino d’oro di Firenze.
“Quando gli ho dato la mano, consegnandogli il fiorino d’oro di Firenze, mi é sembrato di toccare la storia”, c’era scritto.
Ecco.
Siccome i social non te la mandano a dire, i commenti sono stati senza pietà.
Volendo sitetizzare, il concetto era “Ma vergognati, anche quando muore un grande come Mandela non sai rinunciare a parlare di te!”.
Quando muore uno, inipendentemente da quanto noto sia, pubblicare direttamente una foto che ci ritrae insieme al morto quando era ancora vivo per far vedere che noi sì, che quel morto lo conoscevamo, la trovo una cosa discretamente grottesca.
Ci vedrei meglio un personalissimo cordoglio, ma cosa volete, io ho studiato le scale pentatoniche, non marketing.
Ad ogni modo, quello che segue è un post tratto dal blog di mio papà, che si chiama L’anima della mosca.
Il blog, dico, si chiama L’anima della mosca, non mio papà.
Mio papà si chiama Sergio.
E questo è il suo post dopo la scomparsa di Gipo Farassino pochi giorni fa.
Di scrivere di più in questo momento non me la sento, e ringrazio mio papà anticipatamente del copia incolla che mi permetto di fare.
Era già successo in occasione della morte di Andrea Allione.
Insomma quando non mi vengono le parole per posso stare sicuro di poter fare un copia incolla dal blog di mio papà.
Che non è mica facile parlare della morte senza essere patetici o senza sembrare dei ruffiani.
L’unica cosa che mi sento di poter dire è questa.
Ammesso che esista un paradiso dei musicisti, caro Gipo, spero che tu non sia finito lì dentro. Che conoscendoti, ti romperesti i coglioni.
(di Sergio Catania)
Non era affatto scontato che un siciliano come me potesse arrivare a nutrire per Gipo artista e per Gipo uomo la stima che ho nutrito per lui in questi ultimi anni.
Il percorso è stato lungo, per un paio di decenni Gipo è stato ai miei occhi il rappresentante di una Torino provinciale e retriva che alimentava i primi sussulti leghisti, a cui non poteva avvicinarmi la mia condizione di immigrato e la mia militanza a sinistra.
La sua presa di distanza dalla politica gli valse una certa riconsiderazione da parte mia, ma nulla di più.
Fino al giorno del funerale di Caterina.
Ci ritrovammo al Teatro Erba, il teatro “di” Gipo, ognuno in forza dei più diversi legami stretti con Caterina e la famiglia, tutti con le facce stralunate di un funerale fino a poche ore prima impensabile: un po’ di borghesia torinese, un po’ di gente dello spettacolo della generazione di Gipo, e tutte le forme in cui si poteva rappresentare la gioventù: il punk, il pop, l’hip-hop.., il trasandato e il fighetto, il duro e il fragile, il cattivo e il bravo ragazzo.
Qua e là qualcuno né carne né pesce come me.
Nella sala d’ingresso, una tavola apparecchiata con tramezzini e bevande; nell’aria le note dei Subsonica che cantavano “Il cielo su Torino”.
Di là, nella sala degli spettacoli, la bara di Caterina sul palco, mentre ora l’uno ora l’altro degli amici andava al microfono per recitare una poesia, o cantare una canzone, o leggere qualcosa, o provare a formulare un saluto.
E di tanto in tanto, Gipo a formulare lui stesso qualcuno dei suoi pensieri.
Lì ho capito che tutta quella gente così diversa che aveva voluto ritrovarsi attorno a lui era il suo vero biglietto da visita; mi sono accorto di quanto fosse simile ed in parte coincidente il mondo dei nostri rispettivi figli; e l’ho trovato, non l’avrei mai immaginato, straordinariamente vicino al mio sentire.
Ed ho anche scoperto che il dolore che sentono i figli è per un genitore un tipo speciale di dolore.
Il tutto, proprio negli stessi giorni in cui alcune vicende personali mi portavano a prendere tristemente atto che essere di sinistra non vuole dire di per sé dire nobiltà d’animo.