L’onorevole Crescenzio Rivellini annuncia grandi battaglie per difendere il diritto di quelli che lui chiama patrioti italiani di vedere la RAI all’estero e questo la dice lunga su come intendono la loro missione a Bruxelles certi nostri eurodeputati. Vedere la RAI è dunque diventato un atto di patriottismo e magari è traditore chi guarda la BBC. Per questa grande causa si batte Rivellini e raggiunge nella sua trincea la collega Cristiana Muscardini che a baionetta spianata promette di difendere l’italiano a Bruxelles, anche dovesse combattere contro il piano regolatore del comune di Woluwé-St.-Lambert, poco propenso ad allargare la Scuola europea che si trova sul suo territorio per far posto a più grandi classi italiane.
Tutte battaglie di retroguardia e più che altro rulli di tamburo per attirare visibilità in vista delle elezioni europee. L’italiano è morto nella Scuola europea e a Bruxelles, ucciso non dal piano regolatore di Woluwé-St.-Lambert ma da decenni di cedevolezza e remissione dei nostri governi nella gestione delle Scuole europee e dall’assoluta determinazione dell’Italia a non aprire una scuola italiana pubblica in Belgio. Questa scelta deriva da una nostra antica politica nei confronti della nostra emigrazione che è quella dell’abbandono. L’Italia povera dei secoli scorsi non si poteva permettere di sostenere i suoi troppi emigrati all’estero e ha quindi scelto strategicamente di abbandonarli preferendo accelerare la loro integrazione nei paesi ospiti. Integrazione nel senso di annientamento della loro italianità. Prima si dimenticavamo che erano italiani, meglio era. Per loro e per l’Italia. Una scelta in fondo lecita per il paese povero che eravamo. L’Italia di oggi, che potrebbe essere più influente, che non è più un paese povero e che ora esporta cervelli, nella ristrettezza dei mezzi e nell’angustia della visione dei suoi politici, non si è però allontanata da questa linea. Ci sono più di 300.000 italiani in Belgio ma non ci sarà mai una scuola italiana. L’italiano e la sua cultura attirano interesse in tutto il mondo ma gli Istituti di cultura hanno sempre meno mezzi e sempre più vincoli. Ne ho visitati una decina e mi sono rattristato a sentire ogni volta le assurdità burocratiche contro cui devono combattere i loro direttori. O più spesso neanche direttori, ma reggenti, cioè funzionari pagati meno di un direttore ma con lo stesso incarico, che oltre all’ingrato compito di lavorare con mezzi insufficienti devono fare i conti con i cavilli e le regolamentazioni italiane in materia di agibilità, sicurezza, igiene anche a diecimila chilometri da Roma. Non basta conformarsi alle leggi locali, bisogna anche pagare il pizzo alla patria burocrazia che non si accontenta di paralizzare solo la madrepatria ma vuole intralciare gli italiani ovunque essi siano. Alla fine la visita degli ispettori del ministero diventa la principale preoccupazione di tanti direttori di istituto.
Ma allora, davanti a questo quadro per lo meno deprimente, noi italiani all’estero abbiamo davvero bisogno della RAI, della scuola italiana, dell’istituto di cultura? Noi che tutti parliamo la lingua del paese dove viviamo, non possiamo coltivare quella e fruire della tanta cultura che in quel paese e in quella lingua si producono? Se l’Italia non ci vuole perché noi dobbiamo volere lei? E poi chi ha bisogno di vedere “Affari tuoi” o “L’eredità” e il più squallido sceneggiato del mondo che porta il titolo di “Un posto al sole”? Chissà, in fin dei conti, saremmo migliori italiani e migliori patrioti se non vedessimo la RAI. Ma voglio essere ottimista, voglio pensare che questo sia un disegno, che qualche lucida mente nei palazzi del potere di Roma abbia pensato così: “Noi siamo perduti, corrotti, marci dentro. Salviamo almeno loro, gli italiani all’estero. Impediamogli di vedere la RAI, di imparare l’italiano, di sapere cosa succede qui. Facciamolo per l’Italia, perché un giorno possa tornare a esistere!”
Diego Marani