Il vertice europeo sul lavoro che si è tenuto recentemente a Parigi servirà forse a mantenere alta l’attenzione sul vero dramma di questo tempo ma non può nulla contro i meccanismi di distruzione del lavoro che si sono annidati nel nostro sistema economico. Che per il lavoro siano tempi duri lo riconosce anche Benjamin M. Friedman che con un cospicuo articolo sul New York Review of Books ripercorre l’evoluzione dell’economia americana dal 1967 a oggi e riconosce che forse diceva il vero l’oggi trascurato premio Nobel per l’economia James Meade quando negli anni 60 prevedeva che in futuro l’equilibrio fra la ricchezza prodotta dal lavoro e quella prodotta dal capitale sarebbe saltato, con un crollo del valore del lavoro proporzionale al progresso tecnologico.
È quello cui stiamo assistendo e anche Friedman di ricette per correggere il sistema economico ne ha poche. Sarebbe sbagliato opporsi al progresso tecnologico, perché se è vero che cancella lavoro, suscitando nuovi bisogni ne crea però altro, dice Friedman, e il suo elenco comprende ancora una volta come prima soluzione il cieco affidarsi al sistema del mercato nella speranza che con l’esaurimento di mano d’opera disperata i salari ricomincino a salire a livello mondiale. Si noti che in questa prospettiva dovremmo esaurire la voglia di lavoro di quel qualche centinaio di milioni di disperati che ancora oggi lottano per sopravvivere in Africa o in Asia e che sono pronti a qualsiasi salario pur di sopravvivere. Ci vorrà il suo tempo.
Seconda e radicalmente opposta soluzione per Friedman sarebbe quella di chiudere le frontiere del lavoro dei paesi ricchi e così tutelare i nostri salari lasciando che gli altri si spartiscano la loro fame. Questo scenario, se anche piacesse alla grande finanza che prospera sulla guerra fra lavoratori, comporta l’accettazione di catastrofi sociali insostenibili anche per il mondo occidentale. Perché no, del resto, se la terza via che Friedman vede come risolutiva è proprio quella della catastrofe e della guerra, accompagnata dal progresso tecnologico. Senza mezze parole l’esimio economista americano scrive letteralmente che “dopo la catastrofe economica degli anni 30, il tasso di disoccupazione americano tornò al livello di prima della Depressione solo nel 1943, quando il paese aveva 9 milioni di uomini in armi”. I tempi potranno essere lunghi, teme Friedman, ma “con la guerra o con il progresso tecnologico o qualche altro sconvolgimento qualcosa succederà e i luddisti di oggi (…) verranno ancora una volta smentiti”.
Intanto le banche che abbiamo salvato con i nostri risparmi nicchiano a investire sul lavoro e giocano invece in borsa, con buona pace dei nostri impotenti governi. Loro si sgolano a dire che la formazione e l’istruzione è la via d’uscita. Ma senza mezze parole Friedman afferma anche che “potremmo essere arrivati alla fine dell’epoca in cui si poteva guardare all’istruzione come soluzione multiuso ai problemi di occupazione e di produttività.” Exit dunque la “società della conoscenza” e tutti gli altri miraggi di cui ci siamo infarciti il cervello in tutti questi anni. Un quadro desolante dunque, che però non è il sintomo bensì il risultato di una deviazione che si è prodotta nel profondo della società occidentale e che è la mercificazione di beni che invece non appartengono al mercato. Un processo che descrive bene un altro e ben diverso pensatore americano, Michael J. Sandel, nel suo saggio tradotto in italiano “Quello che i soldi non possono comprare. I limiti morali del mercato.” Sandel non ha dubbi: ci sono cose che non si possono mettere in vendita perché non sono riducibili a un valore mercantile e appartengono a quella sfera di principi in cui si esprime la condizione umana. Ad esempio vendere il diritto di inquinare sotto forma di quote di CO2 è immorale quanto vendere organi o affittare uteri perché in fin dei conti è la vita dell’uomo che qui viene messa in vendita e allora siamo di nuovo allo schiavismo.
Mercificare la sanità o l’istruzione creando ospedali e scuole di lusso aperte solo alle tasche dei ricchi scardina irrimediabilmente la coesione di una società. Anche il lavoro deve essere uno di questi valori invendibili perché su di esso si fonda tutto il nostro vivere. Tutelarne il prezzo è tutelare la dignità umana. E per noi italiani ancora di più non c’è alibi in questo, perché noi il lavoro l’abbiamo messo a fondamento della nostra repubblica. Ma come si può fondarsi su qualcosa che non si controlla e che è in balìa di fenomeni che ci sfuggono completamente? Come si può invocare la Costituzione a qualsiasi titolo quando il suo primo articolo è calpestato? Una correzione allora s’impone: l’Italia è una repubblica fondata non sul lavoro ma sulla vendita: di tutto, dai voti, alle spiagge, ai posti in ospedale, ai titoli di studio, alle bambine squillo. Così forse saremmo più credibili. La soluzione del problema del lavoro va cercata in profondità, nella nostra stessa etica del vivere, in una rivoluzione economica che può solo essere radicale e che passa per la forte tassazione delle rendite finanziarie, per una trasformazione dei consumi, per un aumento dei salari e per un rafforzamento dello stato. Nulla indica che ci sia il minimo intento di andare in questa direzione, al contrario gli stati sono sempre più deboli e l’unica cosa che si possono permettere ormai sono i vertici. Intanto suona la tromba dell’orgoglio nazionale perché all’Italia è stata affidata l’organizzazione del prossimo vertice sul lavoro a Roma nel 2014. Ma non disperiamo, anche quello è lavoro!
Diego Marani