Si fa un gran parlare in Italia di tutela del paesaggio e stagionalmente si lanciano appelli per la conservazione del nostro patrimonio architettonico che quando non crolla, viene inghiottito da viadotti e capannoni. Al nostro paesaggio è legata la nostra cultura e la nostra storia, la nostra stessa percezione di noi. In tutta la cultura occidentale la testimonianza del passato, che sia monumento o rudere, è un elemento fondante e un potente richiamo di identità. Malgrado le grandi distruzioni delle tante guerre, l’Europa conserva gelosamente i suoi monumenti e talvolta perfino li ricostruisce. Ma non ci rendiamo conto che questa è solo la nostra visione delle cose e che esistono civiltà in cui il cimelio del passato non ha nessun valore.
Il pensatore belga Simon Leys, nella sua raccolta di saggi “The hall of uselessness” illustra come ad esempio nella cultura cinese il culto del monumento antico non esista. Le città cinesi non hanno centri storici e il recente boom economico ha cancellato senza remore quel poco di antico che restava, sopravvissuto fino ad oggi non per volontà ma per povertà. Anche Pechino quel che conserva del tempo degli imperatori è una minima parte e profondamente trasformata dal regime comunista. Vi è una “monumentale assenza del passato” nel paesaggio cinese, scrive Leys e continua spiegando che se la Rivoluzione culturale ha potuto distruggere con tanta leggerezza quartieri e città intere è perché nell’animo cinese esiste uno spirito iconoclasta. Non per questo l’identità cinese è meno solida della nostra. Al contrario, si estende per una superficie sconfinata ed è condivisa da più di un miliardo di persone. Qual è dunque il collante che tiene insieme i cinesi e che fa loro sentire di appartenere ad una stessa cultura? Lys sostiene che lo spirito della cultura cinese è pervaso dalla consapevolezza che “niente di immobile può sfuggire allo spietato morso del tempo”. I cinesi non hanno mai cercato di porre durevolezza nei loro monumenti. Al contrario hanno sempre costruito i loro palazzi con materiali deperibili e fragili, condannati a scomparire per una sorta di obsolescenza interiore. In altre parole i cinesi hanno trasposto altrove il loro anelito all’eternità: nel costruttore anziché nella costruzione.
L’identità cinese è nella lingua, nel culto della poesia, che viene recitata a scuola oggi come mille anni fa, nella potenza del criptogramma, che lega i cinesi in una tradizione appesa alla punta di un pennello ma indistruttibile perché si radica nell’animo. Quanto a noi, se ci troviamo a dover difendere i nostri monumenti da capannoni e viadotti, è perché ci manca proprio questo: la consapevolezza di una tradizione condivisa che ce ne faccia sentire il valore. Difendere il paesaggio quando per la maggioranza di noi è diventato insignificante non ha dunque nessun senso. La nostra identità è ormai nei capannoni.
Diego Marani