Secondo il Cese la pratica delle imprese di costruire prodotti che debbano essere sostituiti dopo un tempo limitato provoca danni ambientali, sociali, economici e mina la fiducia nell’industria
La batteria del lettore mp3 comincia a non reggere più appena dopo lo scadere della garanzia? Un ingranaggio della lavatrice si arrugginisce dopo un certo numero di lavaggi? Il vostro cellulare diventa “vecchio” perché superato in tempi rapidissimi da modelli più recenti? Il meccanismo è noto: si tratta della cosiddetta obsolescenza programmata. In poche parole i fabbricanti progettano i loro prodotti deliberatamente per farli durare un periodo di tempo limitato, così da costringere il consumatore ad un nuovo acquisto dopo un lasso di tempo relativamente breve. Un modo per aumentare le vendite e stimolare nuova domanda. Ma anche una causa di danni ambientali, sociali, alla salute e all’economia. Lo afferma il Comitato economico e sociale europeo (Cese) che ha diffuso il primo parere sull’argomento.
“Negli ultimi 10 anni, l’obsolescenza programmata è diventata una tendenza sempre più diffusa in tutti i settori”, dichiara Jean-Pierre Haber, membro della commissione consultiva per le trasformazioni industriali e correlatore del parere insieme a Thierry Libaert, consigliere del Cese. Con conseguenze tutt’altro che positive. “Sostituire detti prodotti significa utilizzare energia e risorse aggiuntive, produrre quantità in più di rifiuti e causare inquinamento dannoso”, spiega il Cese.
Da un punto di vista ambientale, si afferma nel parere, il consumo di risorse naturali in Europa è aumentato di circa il 50 % negli ultimi 30 anni: un europeo consuma 43 kg di risorse al giorno, mentre un africano ne consuma 10 kg. Sul piano sociale, poi, la possibilità di gettare rapidamente un prodotto ha favorito gli acquisti a credito, il che ha portato ad un livello di indebitamento personale senza precedenti.
I danni alla salute umana non derivano unicamente dallo smaltimento e dall’incenerimento di rifiuti prodotti a livello locale, ma anche dalla pratica di esportarli, a volte illegalmente, in paesi in via di sviluppo dalla legislazione meno rigorosa. Sotto il profilo culturale, il fatto che i consumatori percepiscano pratiche di obsolescenza programmata mina la loro fiducia nell’industria. Anche sul piano occupazionale la strategie delle aziende non è vantaggiosa. “La maggior parte di questi prodotti viene fabbricata fuori dall’Europa, da lavoratori sottopagati”, sottolinea Haber. “E se buttassimo meno, avremmo oggetti in più da riparare, creando in tal modo migliaia di posti di lavoro più vicini a casa”.
Per combattere questa pratica, contro cui i consumatori di diversi Stati membri hanno già intrapreso azioni di protesta, il Cese prevede di organizzare una tavola rotonda europea nel 2014, con la partecipazione di tutte le parti interessate: industriale, distribuzione, mondo finanziario, consumatori e sindacati. Nel frattempo, il Comitato chiede alla Commissione europea di condurre ricerche sull’impatto economico e sociale dell’obsolescenza programmata.
Per il Cese dovrebbero essere vietati “i prodotti che presentano una difettosità calcolata volta a porre fine alla loro vita” spiega Libaert. L’auspicio è che le imprese fabbrichino prodotti più facilmente riparabili, ad esempio tramite la fornitura di pezzi di ricambio. Inoltre, secondo il Comitato economico e sociale, ai consumatori andrebbero fornite migliori informazioni sull’aspettativa di vita prevista per un prodotto. Si potrebbe ad esempio pensare, suggerisce il Cese, ad un sistema di etichettatura che garantisca una durata di vita minima del prodotto o ancora si potrebbe obbligare i fabbricanti di prodotti che durino meno di cinque anni a coprire i costi di riciclaggio.
Letizia Pascale