Di tutti gli anniversari che cadono nel 2013, quello dell’entrata nella hit parade americana di Soul Makossa, un single di Manu Dibango uscito l’anno prima in Francia, è senz’altro il più futile. Ma offre lo spunto per ricordare il rivoluzionario fenomeno di costume che fu la Disco Music e di cui Soul Makossa è considerato il manifesto. Il ritmo spoglio e ripetitivo che fra gli anni 70 e 80 ha scandito la giovinezza di almeno tre generazioni, fin dall’inizio fu un genere molto vituperato dagli intenditori. La vena del pop sofisticato batteva altrove e anche i consumatori di rock stavano alla larga dai tribali tamburi della musica afroamericana, negli Stati Uniti oppressa per di più da una pesante connotazione sociale. Ma sotto, sotto invece l’imitazione della black music dilagava e doveva avere le sue conseguenze. Artisti come Janis Joplin e Mick Jagger già apertamente adottavano stili vocali afroamericani. Anche se per una volta non tutto veniva dall’America. Perché ad essere rigorosi la prima discoteca nel senso più puro del termine, nasce in Francia. Assieme all’inedita figura del disc jockey, che diventa un artista alla pari del musicista, con il suo stile e i suoi fan. La Discothèque di Rue de la Huchette a Parigi lancia un definitivo basta alla musica dei juke-box ascoltata pesticciando cicche spente nel chiasso di qualche bar.
New York risponde subito con Le Club e il mondo segue, assieme al mercato. Con il boom economico sono sempre più numerosi i consumatori di musica ritmica che snobbano l’intellettualismo delle grandi opere rock e che in America sono soprattutto negri. Negri e non solo, ma anche omosessuali e emarginati di ogni genere. Tutta gente che non poteva entrare nelle sale da ballo tradizionali dove si andava in coppia. Tutta gente che aveva bisogno di un ritmo che non presupponesse ruoli e che con la liberalizzazione dei costumi trova il coraggio di alzare la testa. Basta sdolcinati lentoni di maschi e femmine strascicati sulla pista guardandosi negli occhi. Viva il ritmo puro che libera il corpo e si carica di ammiccamenti sessuali, dove si balla con tutti e con ciascuno, dove il partner è la folla o è nascosto tra la folla. Siamo o non siamo nell’epoca dell’amore libero e della trasgressione? In questa breccia trova sfogo anche la liberazione sessuale della donna, fino ad allora prigioniera della morale matrimoniale e delle sue ipocrisie. È per questo che molte star della disco sono donne. A cominciare da Donna Summer che con i suoi sospiri porta l’orgasmo in pista e The Andrea True Connection che più esplicita non si può quanto canta il ritornello del suo “More, more, more! How do you like it?” La Disco Music trasforma non solo il modo di ballare ma anche lo stile del divertimento e perfino il paesaggio delle località turistiche. Basti pensare alla nostra Romagna e al fenomeno di locali come Le Cupole di Copparo, Il Picchio Rosso di Formigine, il Bandiera Gialla di Rimini, il Ciak di Bologna, il Peter Pan di Riccione.
La discoteca diventa anche una passerella per vedere ed essere visti, un modo di vestire e di comportarsi. Con “Saturday night fever” Hollywood si impossessa brevemente della Disco Music e dà insperate lettere di nobiltà a un genere che nell’animo resta profondamente trasgressivo e demolitore delle convenzioni. La Disco sarà fino all’ultimo la voce gioiosa e scanzonata della liberazione sessuale e soprattutto omosessuale. Lo mostra il gran numero di artisti gay che si succedono sotto le luci della ribalta. I Village People con il loro stile macho demoliscono una volta per tutte l’immagine di fragile effemminatezza con cui l’opinione comune derideva i gay. Amanda Lear varca un altro limite insinuando una duplicità sessuale che scandalizza e turba: con lei nasce il transessuale. Sylvster con i suoi ballerini nudi non lascia invece spazio ad ambiguità mentre Grace Jones con le sue apparenze tigresche mescola femminilità e aggressività in un cocktail di seduzione unisex. La Disco Music, come la generazione che l’aveva inventata, muore negli anni Ottanta con l’epidemia dell’AIDS. Ne segna il suo definitivo tramonto la Disco Demolition Night di Chicago del 12 luglio 1979, quando migliaia di dischi furono fatti esplodere in un cratere in un evento che all’inizio doveva essere solo una promozione della squadra di baseball dei White Sox. Se la serata si trasformò in una rivolta contro la Disco Music fu forse perché la società americana era satura e cominciava ad avere paura del suo messaggio di trasgressione ad oltranza. “Disco sucks!” gridava la folla del Comiskey Park segnando inconsapevolmente la fine dei grandi movimenti libertari. L’America tornava al più rassicurante rock ‘n roll o sprofondava nell’ecclesiale new country. Ma la Disco ha lasciato un segno duraturo nella musica e nel costume. I suoi battiti li troviamo ancora nelle hit parade di oggi, assieme all’eco di quel grido libertario che aveva a che fare più con il corpo che con la mente. Era una voce che in un qualche modo veniva dall’Africa e il cui messaggio di sensualità e abbandono è tutto il contrario della nostra società incentrata sul controllo e sulla consapevolezza, su quella presunta padronanza di sé che alla fine è solo un miraggio intellettuale.
Diego Marani