La fronda dei poeti frustrati che ha messo in scena la sua ennesima protesta sui palchi di Pordenonelegge è arrivata anche su queste pagine e giustamente risolleva la questione del tramonto della poesia come genere letterario. Lasciamo perdere le invettive di chi vorrebbe vedere l’Unione europea proteggere perfino la poesia e rimpiange il comunismo perché almeno i poeti li metteva in prigione, che è già un modo di considerarli.
Per inciso, è sorprendente vedere quanto male si conosca, anche fra gli intellettuali, il senso e lo scopo del progetto europeo. Anziché una costruzione politica cui partecipare, quando non è totalmente vituperata come covo di banchieri, l’Unione europea è vista tutt’al più come una specie di Croce Rossa, chiamata a soccorrere e a lenire là dove è stato commesso un torto. Chissà, presto si pretenderà che l’UE protegga anche dagli incubi, dall’acne giovanile, dalla carie. Tornando ai nostri poeti trascurati, è vero che oggi quasi nessuno legge più poesia e questo è diventato un fatto di società. Del resto, se perfino la lettura di semplice prosa è in declino, come si può attirare interesse sull’ostica poesia? La poesia è una forma d’espressione criptica, che richiede raccoglimento e astrazione, poco adatta al mondo moderno, dove siamo tutti scaraventati nel vortice della comunicazione immediata. Ma la poesia è necessaria, perché offre a chi la legge la lucidità del distacco, la profondità della parola ponderata, la veggenza che illumina solo chi sa sporgersi fuori dalla razionalità. Molto pubblico pensa che sia poesia il solleticante linguaggio delle canzonette.
Non è così. La poesia è altro, richiede tempo, la si coglie nel silenzio e non tanto facilmente. Ma a chi sa abbandonarvisi dà la vertigine dell’immortalità, della trascendenza. E’ però troppo facile dare tutta la colpa del declino della poesia alle moderne tecnologie della comunicazione digitale. C’è anche una responsabilità dei poeti, o presunti tali, che non va trascurata. Quante volte a noi tutti è capitato di essere afflitti da qualcuno che vuole assolutamente farci leggere le sue poesie? Una forma di edonismo tutto italiano, che assume a seconda dei casi le sembianze di strumento di seduzione o di esibizionismo. Il poeta improvvisato di colpo ci si rivela, ebbene sì, lo credevamo uno a posto invece è afflitto da mille tormenti, primo fra tutti quello di esistere. Subito si atteggia a vittima di questo mondo che non capisce il suo genio e ci mostra i suoi fogli come farebbe un maniaco nel parco spalancando il soprabito. Poi ecco la trappola: vuole anche sapere il nostro parere sui suoi versi. E cosa mai dobbiamo dirgli? Fanno schifo! urla la voce del cuore. Ma temiamo che lo scalmanato sia molto più grave di quanto non sembri e che magari poi si lanci dal decimo piano per questo. Non vogliamo avere un poeta sulla coscienza. Così lo incoraggiamo, sperando che si accontenti. Ma no, è come dare da bere a un alcolizzato.
Chiunque abbia subito una delusione o un abbandono o anche solo la morte del gatto, chiunque si creda frustrato sul lavoro o trascurato negli affetti, si sente abilitato, senza nessuna competenza, a scrivere roba che chiama poesia e usurpa così con i suoi lamenti il nome di un’arte fra le più pure. C’è un linguaggio della poesia che va imparato, con lo studio, con la ricerca, la molta lettura e soprattutto l’umiltà. Non basta lo struggimento a fare il poeta, come non basta il tubetto di vernice a fare il pittore. Ma noi crediamo che il solo fatto di essere italiani ci doni un naturale talento di poeti, che la poesia sia nei nostri geni, come il gusto del bello, la Vespa, gli spaghetti e l’eleganza. Eugenio Montale si scagliava contro i poeti laureati che pretendevano di avere il monopolio del verso. Per i fanfaroni dannunziani del suo tempo il verso doveva essere aulico, altisonante, parlare di dèi e miti antichi, mentre lui sosteneva che no, doveva parlare della vita autentica, della prosaica ma tutta umana quotidianità.
Ma anche per parlare delle cose di tutti i giorni serve l’elevazione e la leggerezza, serve quel distacco che dà alle nostre parole il soffio dell’universalità.
Diego Marani