Se esistesse in Italia un settimanale come «The Economist» di Londra, l’editoriale d’apertura di questa settimana sarebbe il seguente.
Ancora una volta l’Europa è apparsa divisa sulla questione della Siria, con un bel drappello di paesi che si sono accodati al cavaliere americano. Nonostante non avesse nessuna prova concreta che Bashar Assad avesse usato armi chimiche contro i suoi cittadini il 21 agosto, voleva bastonarlo duramente. Per questo, risulta sempre più imprescindibile che l’Europa si doti di una sua propria politica estera.
Dalla vicenda siriana escono profondamente ridimensionati sia il premier inglese David Cameron che il presidente francese François Hollande. Di positivo c’è che la Troika (Inghilterra, Francia e Stati Uniti), che tanti lutti addusse alla Libia e ai suoi cittadini – basti pensare al caos politico che oggi vi regna, ai massacri, alla violenza e all’arroganza delle decine di milizie che hanno combattuto a fianco delle potenze occidentali, compresa Al Qaeda, portando allo sfascio totale dello Stato e che oggi fanno il bello e cattivo tempo senza nessuna prospettiva politica chiara –, è stata finalmente messa fuori gioco a livello globale. Tra l’altro a suo tempo tutti avevamo dato la colpa alle manie di grandezza di Sarkozy, che non si capiva bene cosa volesse ottenere, a meno che il suo obiettivo, poco europeo, fosse quello di ridurre l’influenza dell’Italia in quel paese
Il peggiore di tutti ci è sembrato Hollande, nonostante il suo nome di battesimo, Francesco, e la cui elezione noi avevamo salutato con entusiasmo. Non gli è mai passato per la testa che forse bisognava agire coesi all’interno dell’Unione Europea. Non si capisce poi a che serva ai francesi continuare a fare sfoggio di una potenza militare che a livello globale ormai conta come il due di coppe a briscola (a meno che non si volesse reclamizzare, come ha anche accennato papa Francesco, l’efficacia dell’industria delle armi francesi e si volesse così, in questo modo dissennato, promuoverla). Almeno Cameron ha avuto l’involontario merito di aver rafforzato i poteri del Parlamento che ha sonoramente bocciato i suoi piani di guerra, costringendo forse Obama a fare lo stesso con il Congresso.
Dalla vicenda siriana escono rafforzati il presidente russo Vladimir Putin, Angela Merkel e persino Barack Obama. Putin può rivendicare di avere sventato così una situazione pregna di pericoli difficili da prevedere, in sintonia tra l’altro con papa Francesco, il grande leader spirituale che la Chiesa attendeva da quarant’anni, efficace in quest’occasione nel far sentire la sua voce e condannare senza se e senza ma la guerra. Non solo. Putin si è preso la bella soddisfazione di dire chiaro in faccia agli americani che l’idea di un destino manifesto degli Stati Uniti d’America nel mondo è ormai un’idea che fa più parte dei due secoli scorsi che di quello attuale, e che tutti noi nasciamo uguali davanti a Dio. D’ora in poi gli Stati Uniti non potranno più pretendere di dettare legge da soli, in barba a ogni norma del diritto internazionale, come aveva fatto il predecessore di Obama, Bush II, in nome di una presunta funzione messianica del suo paese.
Molti rimproverano a Obama di essere stato un Re Tentenna, come il mitico re piemontese Carlo Alberto, e suppongono che esca indebolito permanentemente da questa vicenda. È questa la posizione del settimanale inglese «The Economist», che nel numero oggi in edicola sostiene che «Un leader che sceglie liberamente di abbandonare una battaglia non soffre nessuna perdita di prestigio, ma un leader che il mondo vede come incapace di mantenere le proprie promesse è inevitabilmente indebolito». Sempre «The Economist» il 31 agosto aveva messo in copertina la faccia resa mostruosa di Assad con un ordine perentorio (probabilmente rivolto non solo a Cameron ma anche a Obama) «Hit him hard», ‘colpitelo duro’, anche se poi nell’editoriale di apertura si parlava di «apparent use of chemical weapons» da parte di Assad. E poi la settimana seguente, con tono stizzito, sembrava dare ordini direttamente a Obama, dedicandogli una copertina con un titolo inequivocabile, «Fight this war, not the last one», ‘combatti questa guerra, non l’ultima’. Noi riteniamo , invece, che Obama, ne esca rafforzato. Erano più di sessant’anni che un presidente non cercava il consenso del Congresso in questioni di guerra e di pace. E questo era il minimo che la pubblica opinione internazionale si aspettava da un presidente che è stato insignito del premio Nobel per la pace. Un’altra disastrosa guerra, come le tante che hanno danneggiato l’immagine dell’America negli ultimi dieci anni, sarebbe stata, quella sì, fatale per Obama dopo la faccenda della Libia, dove l’intervento umanitario è stato accompagnato da atroci crudeltà, inammissibili anche in una guerra, come lo sterminio della famiglia di uno dei figli di Gheddafi, compresi tre figli piccoli, il giorno prima che Obama desse l’ordine di giustiziare Gheddafi, come fossimo nel Far West. È vero che l’aereo che ha gettato la bomba era inglese, partito però da una base americana in Italia; possiamo solo immaginare cosa avrebbero potuto chiedere a suo padre, Nobel per la pace oltre che presidente, le sue due giovani figlie se fossero venute a conoscenza del fatto.
Obama è riuscito a evitare la figuraccia di Cameron e a ottenere quello che probabilmente desiderava.
Il leader che però ne esce meglio in assoluto è Angela Merkel. La Merkel non si è inchinata alle richieste americane – come è stato probabilmente costretto a fare il nostro premier Enrico Letta, che probabilmente non poteva fare altro – ma si è allineata piuttosto con la Cina, la Russia, l’India, il Brasile e altri grandi paesi, tutti contrari all’intervento militare.
A questo punto, non ci sono dubbi che Angela, quando verrà rieletta per la terza volta domenica prossima, come avevamo ben previsto già un anno fa, potrebbe diventare l’unico grande leader non solo dell’Europa ma dell’Occidente intero. Propedeuticamente, però, per poter svolgere questo ruolo, deve far fede a quello che ha detto pubblicamente, di fronte a un gruppo di studenti liceali al Neues Museum di Berlino il 7 febbraio del 2012 in occasione del ventesimo anniversario di Maastricht, e cioè che bisogna permettere agli elettori europei di eleggere democraticamente, oltre ai leader nazionali, anche quelli dell’Europa, affinché i loro mandati siano compatibili con i loro poteri. Il Parlamento Europeo deve avere il diritto di esprimere un loro presidente, che per forza di cose non potrà più essere solo il presidente della Commissione, ma presidente degli Stati Uniti d’Europa. In questo modo la Commissione di Bruxelles diventerà un’istituzione politicamente responsabile, che come tutti gli organi esecutivi dovrà rendere conto al Parlamento, l’unico organo elettivo.
Anche se non sarà facile neanche per la Merkel portare avanti questo progetto, perché le resistenze di coloro che lo vogliono ostacolare sono formidabili, l’esperienza di quello che è successo riguardo alla Siria lo rende ancora più irrinunciabile. Ora che gli Stati Uniti, grazie a Obama, sono stati costretti a scendere dal trono e dare prova di modestia, è assolutamente necessario che la nuova Europa si doti, come abbiamo già detto, di una propria politica estera. Abbiamo troppi interessi in comune (il mercato, la moneta, l’agricoltura, il commercio estero) e non possiamo permetterci di continuare a rimediare ancora figuracce come quella che hanno fatto a Vilnius il 7 settembre i ministri degli esteri europei, che come cagnolini si sono accucciati alle richieste americane, un vero e proprio capolavoro di insulsaggine, riuscendo solo a balbettare che l’Europa è per una “risposta forte” all’attacco chimico del 21 agosto, senza neanche provare a chiedersi se ci fosse qualche prova a carico di Assad e nonostante il belga Pierre Piccinin, compagno di prigionia dell’inviato della «Stampa» Domenico Quirico, si fosse detto certo, dalle conversazioni avute o ascoltate, che Assad non c’entrava niente.
Ed è necessario che la politica estera europea, per il bene stesso del suo grande alleato, si distingua radicalmente da quella degli Stati Uniti, della Russia e della Cina.
La maggioranza dei cittadini europei (e probabilmente anche americani) è ormai disgustata dalle guerre. Siamo diventati allergici a queste cose. Lo riconosce persino «The Economist» di oggi: «Tutti sapevano che i cittadini dell’Occidente erano stanchi di combattere, ma fin quando Obama e Cameron non glielo hanno chiesto [per l’ennesima volta, aggiungo], nessuno poteva immaginare quanto fossero stanchi».
Non c’è più la coscrizione obbligatoria – quella maledizione introdotta da Napoleone che tanti lutti ha prodotto in Europa. Sono stati creati eserciti di professionisti. Quando apprendiamo, però, che un soldato italiano è stato ucciso in Afghanistan – ne sono morti cinquantatré in quasi dieci anni di presenza – tutti noi italiani lo sentiamo come un evento assurdo, incomprensibile e soprattutto inaccettabile, al di là degli ipocriti discorsi retorici di coloro che vivono di guerra. Non possiamo più accettare i ragionamenti dei militari di professione. Sbaglia Luigi Binelli Mantelli, capo di Stato maggiore della Difesa, quando afferma che «Camillo Benso Conte di Cavour mandò diciottomila uomini a combattere in Crimea. Un sacrificio di vite altissimo. Ma anche quello fu un investimento». Non è giusto, anzi è immorale fare investimenti con il sangue degli uomini.
Moralmente, i cittadini europei, qualunque cosa pensino i suoi generali, sono già culturalmente neutrali. A questo punto, l’Europa deve fare le sue scelte. E per questo, noi siamo convinti che la politica estera europea debba diventare neutrale come quella della Svizzera. D’altra parte, i ventotto Stati europei (due di più dei ventisei cantoni svizzeri) si trovano in una situazione non molto diversa da quella in cui si trovò la Svizzera agli inizi dell’Ottocento. Sono troppo piccoli per svolgere un’efficace politica estera nel mondo globalizzato. Si potrebbe sostenere che l’Europa tutta è piccola, nella situazione demografica di oggi. Siamo poco più di cinquecento milioni di persone, in un periodo storico nel quale la popolazione mondiale ha superato i sette miliardi.
Neanche gli svizzeri sono sempre stati sempre neutrali. Anzi. Erano considerati particolarmente bellicosi e ricercati in tutte le guerre che si svolsero tra il Quattrocento e il Settecento. Ma dopo le guerre napoleoniche, la Svizzera capì di essere un vaso di coccio al confronto dei grandi Stati europei che si erano formati. Il rappresentante della Svizzera al Congresso di Vienna non si diede pace fino a quando non riuscì a ottenere per il suo paese il riconoscimento ufficiale della neutralità. Sostenne con successo che «la neutralità e l’inviolabilità della Svizzera e la sua indipendenza da qualsiasi influenza straniera sono nei veri interessi dell’intera Europa». Allo stesso modo l’Europa potrebbe sostenere che è nell’interesse di tutto il mondo che la sua politica estera segua le orme della Svizzera. Si verrebbe così ad avere una grande potenza mondiale, la più ricca del mondo, che si distingue radicalmente dall’altra grande potenza dell’Occidente sua alleata, gli Stati Uniti, un paese che spende per le sue forze armate più di quanto spendano gli altri Stati del mondo tutti messi insieme. È forse per questo – un cattivo esempio per tutto il resto del mondo – che l’America crede di essere un paese altamente civile con un destino manifesto e naturale leader dell’Occidente?
Se l’Europa adottasse una politica di neutralità, sarebbe da esempio per tutti gli altri grandi imperi del mondo e potrebbe persino convincere gli Stati Uniti a ridimensionare la propria spesa militare. Non saremmo costretti, com’è accaduto anche nel caso dell’Iraq e ora della Siria, a dover decidere se essere a rimorchio degli yankee.
Naturalmente avere una politica estera comune e neutrale non significa essere disarmati e impotenti. La Svizzera stessa è neutrale ma si è ben organizzata per difendersi in caso di attacco. Durante la seconda guerra mondiale, essa avrebbe probabilmente lottato con le unghie e con i denti per difendere i suoi valichi in caso di invasione da parte della Germania o dell’Italia. Il fatto di vincere la guerra senza aver perso nemmeno un soldato in battaglia è stata la più grande vittoria che la Svizzera potesse ottenere. Per difendersi naturalmente l’Europa dovrebbe dotarsi di una politica di difesa comune. Mentre sarebbe difficile coordinare un esercito europeo con scopi aggressivi, non dovrebbe essere troppo difficile unificare le politiche militari se sono a difesa del territorio. Ogni paese dovrebbe essere responsabile della difesa dei confini esterni all’Unione (e quelli che non li avessero, dovrebbero contribuire). Ci sarebbe poi da creare corpi integrati per le funzioni sovranazionali, cioè, tanto per capirci, i missili.
Quando si parla di politica estera comune e neutrale, la prima obiezione che viene fatta è la seguente: ma com’è possibile essere neutrali se in un paese come l’Italia, ad esempio, esistono decine di basi militari americane? Chi ospita basi americane non può non dirsi complice della politica militare americana. L’Italia non avrebbe avuto alla fin fine la possibilità di sottrarsi all’intervento in Siria. E se Bashar Assad, come fece Gheddafi nel 1986 quando lanciò due missili contro Lampedusa, avesse fatto la stessa cosa, avrebbe avuto una sua sorta di legittimità. La risposta, pertanto, non può essere che una: smantellare le basi.
La seconda obiezione riguarda la NATO. Cosa succederà alla NATO il giorno che l’Europa dovesse diventare neutrale? È ovvio che la NATO non potrebbe continuare con la stessa catena di comando di oggi. Nessuno avrebbe delle obiezioni affinché gli americani restino nella NATO, ma sotto comando europeo. L’America fornirebbe all’Europa un aiuto militare in caso di necessità. E per questo gli USA dovrebbero essere lautamente ripagati. Non c’è più nessun motivo per cui i contribuenti americani devono accollarsi questo onere. Potrebbero esportare un servizio – quello di difesa militare – e per questo dovrebbero essere remunerati, contribuendo così a ridurre il disavanzo della parte corrente della loro bilancia dei pagamenti. Ricordiamoci che, secondo i dati più recenti, gli Stati Uniti hanno un disavanzo nella loro di 425 miliardi di dollari e i paesi dell’Eurozona un surplus di 247 miliardi. Anche l’Italia, nonostante la terribile depressione, nei dodici mesi terminati a giugno ha un surplus (6 miliardi).
La terza riguarderebbe gli interventi umanitari. Cosa dovrebbe fare un’Europa neutrale in casi come la Siria? Dovrebbe accettare le sofferenze di un popolo senza battere ciglio? Naturalmente no. Ma l’interventismo dell’Europa dovrebbe avere obiettivi diversi, non certo quello di sperimentare bombe o missili di nuovissima tecnologia, con l’unica sicurezza di fare vittime innocenti, anche bambini, ma quello di promuovere nel breve termine la soluzione del conflitto facendo sedere gli irriducibili nemici a un tavolo di trattative. In altre parole, l’Europa avrebbe dovuto fare quello che sta cercando di fare la Russia, e cioè dimostrare che le armi della diplomazia possono essere a volte più potenti delle minacce di ricorrere alle bombe. Sarà pure vero, come dice stamattina «The Economist», che Putin è un «serial abuser of human rights», ma la stessa cosa non può certo essere detta per l’Europa.
Nel medio e lungo termnine, solo noi europei potremmo tentare di convincere, con la forza dell’esempio, i nostri dirimpettai e vicini del Medio Oriente e del Nord Africa che creare un’Unione Araba simile a quella Europea non è poi una cattiva idea. Tedeschi e francesi, fino alla metà del secolo scorso, si odiavano visceralmente, come oggi Israele e l’Iran.
Quando l’Italia avrà la presidenza del Consiglio Europeo, nella seconda metà del 2014, dovrebbe fare della neutralità uno dei suoi cavalli di battaglia. Non possiamo più permetterci un personale delle forze armate di quasi duecentomila persone. Abbiamo disperatamente bisogno di tagliare la spesa pubblica. Sono sicuro che papa Francesco sarebbe d’accordo.
Elido Fazi