L’Isola, insofferente alle restrizioni comunitarie sulla pesca, questione controversa nel Paese, preferisce abbandonare i negoziati in attesa del referendum (di cui non si conosce la data)
“Abbiamo dissolto la task force e il nostro team di negoziazione; non ci saranno altri summits.” Così, lapidario, il ministro per gli Affari esteri islandese Gunnar Bragi Sveinsson si è recentemente espresso di fronte al Parlamento dell’Isola lasciando presagire la fine del travagliato percorso che avrebbe dovuto portare l’Islanda ad aderire all’Unione europea.
Pare che si chiuda una volta per tutte e con un’uscita “quasi definitiva” la lunga trattativa iniziata nel 2009, quando il terremoto finanziario che scosse l’isola spinse l’allora primo ministro islandese, la socialdemocratica Jóhanna Sigurðardóttir a scegliere l’ingresso nell’Unione europea e l’adozione della moneta unica perché considerate “la migliore opzione” per il Paese. Poi con il risanamento dei conti e l’uscita dalla crisi l’Islanda, che non ha mai digerito le restrizioni in merito a questioni spinose come Pac e Pesca, ha cominciato a guardare all’Europa sempre più da lontano. Lo scorso aprile, in tempo di campagna elettorale, col sentore della vittoria – poi realizzatasi – dei partiti euroscettici, i negoziati erano stati interrotti. Per non riprendere più. L’ingresso del nuovo Premier, il progressista Sigmundur Davíð Gunnlaugsson (centro), alleato del Partito dell’Indipendenza di Bjarni Benediktsson (destra), ha segnato una drastica battuta d’arresto e vanificato in pochi mesi il lungo lavoro di Sigurðardóttir, che aveva faticato a raggiungere accordi con Bruxelles proprio in tema di politica agricola comune (Pac) e di pesca, settori che producono il 70% del fatturato del Paese in materia di esportazioni.
E ancora sulla questione “pesca” si è innescata, la scorsa estate, l’ultima miccia dello scontro Ue – Islanda. La decisione di aumentare la quota annua di sgombro portandola a 123 mila tonnellate, presa unilateralmente dall’Isola, non è piaciuta all’Europa. A luglio il Presidente della Commissione europea José Manuel Barroso aveva incontrato Gunnlaugsson per cercare una mediazione: “Esploreremo tutte le possibili misure per trovare una soluzione equilibrata e assicurare la sostenibilità. Ma vogliamo un accordo negoziato, non possiamo accettare che i nostri paesi membri intraprendano azioni unilaterali.” Le restrizioni dell’Europa e la conseguente minaccia di sanzione da parte della commissaria per la pesca Maria Damanaki per l’insostenibilità dei numeri (“L’Islanda ritiene di poter aumentare le sue quote perché molti sgombri stanno migrando al nord a causa del riscaldamento delle acque” si era giustificato il premier), non sono andate giù al governo di Reykjavik che ha preferito uscire di scena dopo l’ultimatum di Barroso. “I negoziati per l’adesione sono ancora validi” aveva detto il Presidente della Commissione “ma il tempo corre; è nell’interesse di tutti che la decisione venga presa senza ulteriori rinvii”.
l governo islandese, unito nelle parole di Sveinsson, ha le idee chiare sull’uscita dalle trattative: “Il processo è stato sospeso, ma nulla è ancora stato chiuso definitivamente. Aumenteremo la comunicazione e rafforzeremo i nostri legami con l’Europa senza aderirvi davvero”. Ma, come ha ricordato il primo ministro, l’ultima parola spetterà ai cittadini che saranno chiamati ad esprimersi con un referendum del quale, per il momento, non si ha ancora una data.
Loredana Recchia