Ad assistere ai tracolli della politica estera italiana, dal caso kazako ai marò vengono in mente le illuminanti pagine del saggio “Critica della politica estera” di Ekkehart Krippendorff, pubblicato più di dieci anni fa ma ormai un classico dell’argomento. Secondo Krippendorff, la politica estera è una continuazione della guerra e assume le sue prime forme nella cartografia medievale, che era lo strumento con cui i potenti vedevano il mondo e disegnavano il loro dominio su di esso senza nessuna considerazione per i popoli, neppure i loro. Non per niente Mussolini scriveva “Dove la geografia non va d’accordo con l’etnia, è quest’ultima che deve spostarsi”. Dominare era quindi innanzitutto conoscere i luoghi, controllarne le strade di accesso, anche perché, come sapevano bene Napoleone e Hitler, se si voleva conquistare un paese, per quelle strade bisognava far passare cannoni e carrarmati. Secondo Krippendorff la politica estera moderna comincia con la pace di Westfalia del 1648, quando all’ordine basato sui valori universali della Chiesa, rappresentati dal Sacro romano impero, si sostituisce la “ragion di stato” di Richelieu, fondata sull’equilibrio di forze in continuo movimento.
“L’essere umano è immortale, la sua salvezza egli la trova dopo la morte; lo Stato non è immortale, la sua salvezza esso la trova su questa terra – oppure per niente”, scriveva il Cardinale. Da allora in poi la politica estera si è sempre basata su spartizioni, concordate o imposte, di territori. Dopo la pace di Westfalia, la successiva fu quella del 1772, quando Russia, Austria e Prussia si spartirono per la prima volta la Polonia e ridisegnarono i confini dei loro Stati. Con un occhio ancora una volta alla cartografia e all’immagine, anche estetica, che gli Stati avevano sul mappamondo. « Corriger la figure de la Prusse » era il motto di Federico II di Prussia. Venne poi l’assegnazione della Bosnia–Erzegovina all’Austria nel 1878, la ripartizione dell’Africa fra le potenze coloniali alla Conferenza di Berlino del 1884, la ripartizione del mondo in sfere di influenza alla Conferenza di Yalta del 1944. Negli anni Novanta del XX secolo, la ripartizione degli Stati dell’ex Iugoslavia conferma la tradizione ben salda della ragion di stato contro ogni altro principio. « Una guerra è giusta quando i motivi per cui essa fu cominciata son giusti » scriveva sempre il Cardinale e ribadiva : « Chi si prefigge di uccidere il colpevole, a volte versa senza volerlo il sangue dell’innocente ». Parole che starebbero benissimo in bocca a Tony Blair. Un’alternativa al sopruso della ragion di stato ci sarebbe, sostiene Krippendorff, ed è quella di subordinare la ragion di stato a principi morali non più ispirati da una religione come accadeva nel il Sacro romano impero, ma fondati sul diritto e l’autodeterminazione dei popoli. Concezioni cui la politica estera di oggi è assolutamente lontana.
Le nuove potenze economiche emergenti sulla scena mondiale si stanno ritagliando anche la loro fetta di ingerenza politica sul mappamondo. In questo grande gioco ci sono Stati europei che riescono ancora a muovere le loro pedine, come il Regno Unito con la sempre efficace macchina del Commonwealth e perfino la Francia con la sua pur malandata influenza africana che dopo tant tempo ha nuovamente centrato il bersaglio con il successo della guerra in Mali. Quanto a noi, non sappiamo neanche dov’è il Kazakistan e se ci abitano kazaki o kazakistani.
Diego Marani