È sempre difficile leggere le vere motivazioni dietro le cronache e le analisi dell’economia sui nostri quotidiani. Persino uno come Eugenio Scalfari ripete domenica 20 giugno 2013 il solito mantra secondo cui l’euro è troppo forte e andrebbe svalutato: «E se il cambio euro/dollaro vedesse un indebolimento controllato della moneta europea, per esempio attorno a 1,20 dollari per un euro, sarebbe un fenomeno positivo per le nostre esportazioni e una politica anticiclica come è compito della Banca Centrale».
E il giorno dopo anche un economista di solito lucido come Marcello De Cecco, parlando del graduale abbandono della politica di quantitative easing da parte del presidente della Fed Ben Bernanke, sostiene su «Affari e Finanza» di «Repubblica»: «Solo l’Euro e le esportazioni europee potranno beneficiare, perché nella nuova atmosfera non è fuori luogo prevedere una discesa del cambio euro/dollaro a 1,20 o persino a 1,10».
Ricordando a mente, negli ultimi giorni la stessa tesi, cioè che l’Euro dovrebbe svalutarsi, l’hanno sostenuta il giornalista Vittorio Zucconi e due imprenditori, Tronchetti Provera e Sergio Marchionne.
Se le teorie degli economisti valgono ancora qualcosa (e questo è tutto da dimostrare) a me questi ragionamenti sembrano sbagliati: l’euro è semmai troppo debole, non troppo forte. Basta dare uno sguardo ai dati della parte corrente della bilancia dei pagamenti. Secondo i dati più recenti, l’Eurozona ha oggi un surplus nella parte corrente della bilancia dei pagamenti pari a 191 miliardi di dollari, dovuti in gran parte all’enorme, poco sano surplus della Germania (+245 miliardi). L’Italia stessa registra oggi un piccolo surplus, ma in sostanza è in pareggio, che è la posizione ottimale. Gli Stati Uniti, se la loro moneta dovesse rafforzarsi, andrebbero probabilmente incontro a un peggioramento del loro cronico e insopportabile (se non fossero gli Usa) deficit, pari oggi a 425 miliardi di dollari. Sia la Germania che gli Usa hanno una situazione che, a detta di Keynes, è poco sana. Gli Stati Uniti, a causa del deficit, si indebitano con l’estero sempre di più. E i Paesi creditori come la Germania, che a parte una piccola parentesi durante l’unificazione hanno sempre avuto da decenni un surplus, sprecano poi con politiche dissennate di investimento i loro grandi crediti verso l’estero
Purtroppo è convinzione di quasi tutti i leader politici tedeschi e di parte della sua pubblica opinione che un enorme surplus della bilancia dei pagamenti sia un segnale di forza, come avrebbe detto Bossi negli anni Novanta, più è alto il surplus più un Paese ce l’ha duro (speriamo che per la Germania questo pensierino non abbia le stesse conseguenze di hybris e nemesis che ha avuto per Bossi). Non contenti che il loro surplus pari al 7% del pil (3 volte tanto rispetto a dieci anni fa) sia già a livelli di guardia per la sanità di un’economia, i tedeschi vorrebbero aumentare ancora le loro esportazioni che già rappresentano un insano 50% del pil. Secondo una stima della McKinsey da oggi al 2025 le esportazioni tedesche potrebbero crescere ancora dell’80%, portando la loro quota del pil a un demenziale 68%, situazione chiaramente pericolosa e poco sostenibile.
Se i tedeschi esportano così tanto la conclusione deve anche essere che beneficiano di un cambio favorevole. Ma a questo punto uno dovrebbe anche chiedersi: ma a chi vanno i benefici di tanta capacità di essere i più grandi ed efficienti lavoratori del mondo? Non certo ai lavoratori, se tra il 2001 e il 2010 i loro salari sono saliti in termini nominali in media solo dell’1,1% l’anno. Considerando l’inflazione sono in pratica diminuiti. Ne beneficiano le famiglie medie allora? Neanche per sogno. Secondo la Bce, il patrimonio netto delle famiglie tedesche, pari a 51,400 euro, è tra i più bassi d’Europa. Il patrimonio netto delle famiglie italiane, sempre secondo la Bce, è tre volte tanto. È vero che metà della Germania fino a venticinque anni fa non poteva possedere proprietà, ma è anche vero che la maggior parte delle case in Germania, a causa del loro basso valore, più basso che in altri Paesi europei, danno rendimenti ottimi se affittate e sono possedute da un piccolissimo numero di rentier, e di conseguenza la Germania è il paese con la più diseguale distribuzione della ricchezza delle famiglie in Europa.
Qualcuno potrebbe obiettare che però su un punto i tedeschi stanno meglio di tutti: la disoccupazione è bassissima (solo il 5,4% secondo dati Ocse e quella giovanile all’8%, la metà di quella americana e un terzo della media europea). Bisogna tener conto però della cosiddetta riforma di Hartz, dal nome del presidente della Commissione che le fece durante il governo Schroeder. Questa riforma ha radicalmente modificato la struttura del mercato del lavoro. Essa eliminò le tasse sul salario per coloro che guadagnano fino a 400 euro (di recente portati a 450) introducendo part-time “mini jobs”, trasformando la Germania così nel più anglosassone dei paesi europei. Ormai il 20% della forza-lavoro tedesca lavora a salari a bassa intensità. Solo gli Stati Uniti e l’Inghilterra hanno la stessa situazione. In Francia, ad esempio, la stessa percentuale è del 10%.
Il vero problema è che gli Stati Uniti dovrebbero svalutare, e non c’è dubbio che di questo hanno parlato Obama e il nuovo presidente cinese Xi Jinping durante il loro rilassato weekend in una casa di campagna californiana, ma per adesso non se lo possono permettere, perché i cinesi vogliono almeno qualche anno o mese per poter impiegare meglio, anche se in parte, le loro riserve di Treasury Bills.
Al contrario di quello che sta succedendo a noi europei del profondo Sud, dove, non potendo più stampare moneta, non saremmo in grado di evitare al 100% un default nel caso il Pil dovesse continuare a scendere, gli Stati Uniti possono stampare moneta a volontà – sono proprietari delle presse più importanti del mondo, quelle per stampare moneta della Fed – anche se ora Bernanke ha fatto capire che a partire da metà 2014 ridurranno il quantitative easing. Non solo possono stamparla e prestarla a tassi vicini allo zero, ma ne possono stampare talmente tanta che potrebbero non solo far salire l’inflazione a livelli molto più alti di oggi, e di conseguenza svalutare la moneta, come è successo di recente in Giappone, facendo gridare al pericolo di “currency war”. Una svalutazione non solo fa aumentare il costo delle importazioni, come ha ben scoperto il Regno Unito nel 2009 e nel 2010, ma si potrebbe anche definire un default soft. Gli stranieri che hanno nei loro portafogli obbligazioni o azioni in dollari ci rimettono. Nella loro moneta, gli investimenti in dollari varrebbero molto meno.
Supponiamo, ad esempio, che il dollaro si svaluti in modo non irrilevante con il renminbi cinese. Se misurati in renminbi, i 1,200 miliardi di dollari in Treasury Bills accumulati dai cinesi varrebbero in renminbi molto meno di prima. Non solo. Un dollaro svalutato dovrebbe far crescere le esportazioni americane. Il guadagno degli Usa sarebbe una perdita secca per i cinesi. Si potrebbe dire che gli interessi degli americani (che hanno anche diritto di voto) potrebbero prevalere sugli interessi dei creditori cinesi, che dopotutto non lo hanno né in America né in Cina. Prima della crisi del 2008, sembrava che non dovesse esserci nessun problema e sia i cittadini votanti americani che i cinesi avrebbero potuto essere tenuti contenti. Ma dopo la crisi del 2008 è sempre più probabile che assisteremo a qualcosa che Stephen King, nel suo recente libro When money run out, chiama «politicizzazione dei flussi di capitale».
I cinesi sono i primi a sapere che gli Stati Uniti possono usare quest’arma di distruzione di massa di carta. E allora come stanno reagendo? Investendo sempre di più non in carta ma in altri tipi di assets che difficilmente possono essere svalutati attraverso le presse monetarie. Cercheranno di impadronirsi dell’argenteria di famiglia, e cioè imprese o immobili. Sembra che già ora i cinesi stiano facendo incetta delle migliori proprietà a Manhattan, mettendo nel frattempo fuori mercato eventuali acquirenti locali. E poi, come noto, con i dollari si possono acquistare imprese e terreni (soprattutto in Africa).
Elido Fazi