Il prossimo Consiglio Europeo “farà il punto sulla implementazione dello sforzo per sviluppare la competitività, il lavoro e la crescita in Europa”. Gia l’uso della lingua è depressivo. Ma che significa “implementazione dello sforzo”? Ma c’è veramente qualcuno in Europa che ha idee chiare su questo punto? Finora tutti gli sforzi sono stati fatti per ridurre l’occupazione, non per aumentarla. Cosa pensa Enrico Letta di proporre per l’Italia agli altri capi di Stato per farci uscire dalla deflazione-depressione in cui siamo caduti? Cerchiamo di ragionarci sopra. Lo sforzo della riflessione, purtroppo, dovrà essere un po’ più lungo del solito.
Le idee degli economisti – scriveva Keynes – sia quelle giuste che quelle sbagliate, sono più potenti di quanto si possa comunemente pensare. In realtà il mondo è governato da poche cose al di fuori di quelle. Uomini della pratica, che si credono immuni da qualunque influenza intellettuale, sono generalmente schiavi di qualche economista defunto….Sono certo che il potere degli interessi costituiti è molto sopravvalutato rispetto alla graduale influenza delle idee. Certamente non immediatamente….Ma prima o poi sono le idee, non gli interessi costituiti, a rivelarsi pericolose. Nel bene e nel male.
Le idee degli economisti sono spesso molto diverse tra di loro, come noto. Uno dei segreti meglio difesi dagli economisti è che non esiste una teoria economica. Non esistono principi fondamentali su cui poter basare l’analisi di una certa situazione economica. L’economia non è la fisica, la chimica o la biologia dove si può dare per abbastanza certo che ogni cellula funziona sulla base delle informazioni per la sintesi proteica codificate nel suo DNA.
Quando i tedeschi (e i loro amichetti olandesi o finlandesi) si intestardiscono sul fatto ad esempio che ci vuole Austerity, quello che dicono è basato spesso sul nulla. “I principi economici che sostengono le loro teorie sono un inganno”, come ha scritto sul Sole 24 Ore lo studioso americano Bradford DeLong, che è stato anche sottosegretario al Tesoro degli Stati Uniti, “non sono verità fondamentali ma mere manopole da girare e regolare in virtù delle giuste conclusioni che emergono dalla analisi. Le giuste conclusioni dipendono da quale di due tipi di economisti si è. Il primo sceglie, per ragioni non economiche e non scientifiche, un orientamento politico e una serie di alleati politici, e gira e regola le sue ipotesi fino a giungere alle conclusioni che meglio si adattano al suo orientamento e che possono compiacere gli alleati. Il secondo, prende tutte le ossa della storia, le butta in una casseruola, accende il fuoco e le fa bollire, sperando che le ossa trasmettano degli insegnamenti e suggeriscano i principi per guidare gli elettori, i burocrati e i politici della nostra civiltà…..Non sorprende, quindi, il fatto che, a mio avviso, solo il secondo tipo di economista abbia qualcosa di utile da dire. Allora, quali lezioni deve insegnarci la storia sulla nostra attuale situazione economica?”.
Sono ormai quasi 6 anni da quando è iniziata la crisi finanziaria nell’estate del 2007, per esplodere poi l’autunno successivo. Non tutti si erano resi conto allora che la ripresa dopo la crisi sarebbe stata molto più difficile che nel passato, ma anche i pochi che avevano capito bene la gravità della crisi hanno sottovalutato quanto la crisi potesse essere profonda, addirittura epocale. Nessuno, soprattutto allora, avrebbe poi potuto prevedere che l’epicentro della crisi sarebbe stata l’Europa e non gli Stati Uniti. Vediamo i dati che riguardano il nostro Paese, per capire meglio cosa è successo. Secondo i dati ufficiali ISTAT in soli 6 ani il Pil pro-capite è sceso dell’11,5% e nella graduatoria internazionale siamo passati dal 31° al 45° posto. La capacità produttiva è scesa del 16% nell’industria, il debito pubblico è salito a livelli mai visti prima sia in rapporto al Pil sia in assoluto, i giovani senza lavoro fra disoccupati e scoraggiati supera il 50%. Spagna, Grecia e Portogallo stanno peggio di noi. Perciò, per essere onesti fino in fondo, la crisi non è dovuta solo al fatto che i nostri politici sono e sono sempre stati i peggiori del mondo ma anche a qualcosa che ha depresso come non si era mai visto prima, dal dopoguerra in poi i consumi e gli investimenti delle imprese. Per uscire da questa situazione, ragionando da economisti, perciò, non basta solo cambiare la testa degli italiani (cosa che riteniamo comunque necessaria) ma si dovrebbe rilanciare la domanda. Anche se, come detto prima, l’economia non è la fisica o la chimica, su questo punto però sembra esserci totale convergenza di idee: la depressione della domanda si cura sostenendo la domanda, non continuando ad abbassarla, come continua a fare l’Italia che anche quest’anno farà registrare un surplus nel bilancio dello Stato al netto degli interessi sul debito. Ma come può farlo il governo italiano (o quello spagnolo, portoghese e greco) se come noto abbiamo rinunciato al tempo dell’Euro alle leve macroeconomiche nazionali? E se il Trattato di Maastricht, fatto in tempi ormai lontani, anzi lontanissimi, fu concepito, secondo linee neoliberistiche soprattutto per combattere l’inflazione (e quindi un eventuale eccesso di domanda) e questo ora concede ai neoliberisti il potere di veto su tutto ciò che può essere fatto per rilanciare la domanda? Bisogna mettere più soldi nelle tasche degli italiani e delle piccole e medie imprese che rappresentano la vera, unica forza di questo Paese. Ma come possiamo fare questo?
Un azione necessaria per noi sarebbe ad esempio un taglio radicale del cuneo fiscale di qualcosa come 100 miliardi di euro da dividere equamente tra lavoratori e imprese (solo quelle con meno di 100 dipendenti, secondo noi, e questa ovviamente, come detto prima non è una regola scientifica). Un azione che immettendo potere di acquisto tra il 5-6% del Pil potrebbe ragionevolmente creare molti posti di lavoro. Per poter fare questo bisognerebbe rovesciare le politiche economiche che sono oggi al cuore dell’Europa. Ma nessuno tra i nostri politici sembra esserne cosciente. Qualcuno, senza neanche immaginarne le conseguenze, suggerisce di uscire dall’Euro. Ma quando si vanno a leggere le loro tesi, se qualcuno le ha elaborate, viene da piangere per l’inadeguatezza del pensiero che c’è dietro.
La scelta politica dell’ Austerità in Europa è stata una scelta politica sbagliata. Lo sostengono ora anche coloro (giornali, giornalisti, e commentatori vari) che a suo tempo avevano difeso con il coltello tra i denti questa scelta. Negli Stati Uniti e in Giappone si è deciso di seguire politiche opposte a quelle dell’Austerità. In America si è fatto un largo uso di quello che viene ormai comunemente chiamato Quantitative Easing, QE per comodità da ora in poi. In Giappone, il nuovo primo ministro Shinzo Abe è salito al centro delle cronache mondiali con la sua Abenomics, che potremmo riassumere per semplicità come monetizzazione diretta del deficit pubblico. Gli impatti di queste politiche sono stati diversi. Negli USA il Pil quest’anno sarà di circa 5 punti superiore a quello del 2007, con la disoccupazione pari al 7,6%. In Europa il Pil è ancora sotto a quello del 2007 (nella UE del -0.7%, nei Paesi dell’Eurogruppo di -1.6%). La disoccupazione è salita al 12,1%. In Italia il Pil è sceso di quasi il 7% dal 2007.
Pensiamo che sia ormai necessario cominciare a discutere quali siano state le risposte più efficaci alla crisi e anche di quelli che erano gli obiettivi di politica economica prima della crisi e quelli che dovrebbero essere ora. E soprattutto quali siano gli strumenti più efficaci per raggiungere gli obiettivi. Prima della crisi c’era un consenso quasi unanime che le banche centrali dovessero essere indipendenti e che il loro obiettivo fosse quello di ottenere tassi di inflazione bassi ma positivi (obiettivo che tra l’altro il Giappone non è riuscito a raggiungere per anni, impelagato in una devastantedeflazione. Dopo la crisi le cose sono cambiate. La Fed si è data come obiettivo il raggiungimento di un certo target di disoccupazione. E il nuovo primo ministro del Giappone Abe ha ordinato (alla faccia della indipendenza delle banche centrali) al nuovo Governatore della Banca del Giappone da lui nominato di scaricare giorno dopo giorno elicotteri pieni di yen su Tokio e altre città fino a quando non si raggiungerà un’inflazione minima del 2%. L’obiettivo è quello di raddoppiare, in modo permanente, si badi bene, la base monetaria. Il nuovo Governatore della Banca d’Inghilterra, un canadese che era prima alla guida della Banca Centrale del Canada, Mark Carney, si è dato come obiettivo una crescita del Pil nominale (non più quello reale).
Ma quello che dopo la crisi non è più un tabù è l’uso di nuovi strumenti monetari e fiscali per raggiungere l’obiettivo. Della monetizzazione del deficit, ad esempio, dopo decenni in cui era stata relegata in soffitta, si può ora riparlare. D’altra parte, per alcuni economisti come vedremo, anche il QE non è altro che una forma di monetizzazione del debito. E se non lo è oggi, nel senso che il Tesoro accende pur sempre un debito con la Fed, potrebbe diventarlo un giorno, se il debito rimanesse come credito in eterno all’interno della Fed.
La domanda che ci si dovrebbe porre da quando è scoppiata la crisi è la seguente: come si può fare per rilanciare la domanda sia di consumi che di investimenti? Il pensiero dominante prima della crisi era che la politica monetaria dovesse operare soprattutto attraverso il mutamento del tasso di interesse e che il ruolo della politica fiscale, cioè il rilancio della domanda attraverso il deficit di bilancio non dovesse avere quasi più nessun ruolo. Ora constatiamo che gli strumenti in uso sono più variegati. I tassi di interesse sono quasi tutti vicini allo zero, ormai persino in Europa. Il QE è stato e continua ad essere usato soprattutto negli USA dalla Fed per acquistare debito del Tesoro americano. Si pensa addirittura di estenderlo per comprare obbligazioni di privati o per costringere le banche a finanziare le imprese come fa la Bank of England con il Funding for Lending Schemes. Insomma, per la prima volta in decenni si è ricominciato a discutere di una cosa che sembrava scomparsa dai testi di Macroeconomia, e cioè la monetizzazione del deficit fiscale e del debito. Quest’ultimo strumento, chiamato in inglese Overt Money Financing (OMF) è stato riammesso tra quelli praticabili. Se uno lo avesse detto 10 anni fa sarebbe stato preso per pazzo. Ma di recente a febbraio ne ha parlato diffusamente in una conferenza persino Adair Turner, Barone di Ecchinswell, Chairman della ex Financial Services Authority dal 2001 al 2013, l’Autorità che avrebbe dovuto controllare le attività delle società finanziarie nel Regno Unito.
Nelle circostanze in cui ci troviamo, con un inflazione in Italia scesa all’1,2% che penso sia un minimo storico e che se fosse depurata di molti articoli che persone a basso reddito non comprano oggi sarebbe addirittura negativa, bisogna riconoscere che stiamo entrando in una regione sconosciuta. Mai prima nella nostra vita si era verificata una situazione che possiamo ormai, senza troppi margini di errore, chiamare di deflazione. In questi casi, persino situazioni estreme, come la monetizzazione permanente di parte del debito non debbono essere escluse, ove fosse necessario. Meglio parlarne ora, con calma e senza pregiudizi, prima che qualche politico dissennato (questi non mancano mai, anzi ne crescono sempre in abbondanza) ci metta gli occhi sopra e agisca in modo irresponsabile.
Diciamo che il fatto che se ne possa parlare è già di per sé un fatto straordinario. Significa rompere uno dei tabù più celebri dell’economia, perché non appena si accenna alla monetizzazione del debito viene subito in mente il diavolo in persona, l’iperinflazione, o quella di Weimar oppure quella dello Zimbabwe che nel luglio del 2008 ha battuto tutti i record : 231.150.888.87 per cento. Figuriamoci poi parlare di questo ai tedeschi. Per loro persino il pensarlo è un peccato mortale. Secondo Jens Weidman, monetizzare il debito sarebbe un’operazione diretta direttamente dal diavolo. L’anno scorso ha persino citato la seconda parte del Faust di Goethe nel quale Mefistofele, agente del diavolo, tenta l’Imperatore suggerendogli di stampare moneta per aumentare la spesa statale ed eliminare il debito pubblico.
Ricordiamoci, però, che i tedeschi, quando si tratta di teorie economiche, non si dovrebbe mai prenderli troppo sul serio. Come scrisse Carli poco prima di morire:
“La sequela infinita di delegazioni tedesche che ho incontrato in questi quaranta e più anni si è sempre abbarbicata su una concezione scolastica dell’economia”.
Si dovrebbe suggerire a Weidman di rileggere per bene il Faust. Si renderebbe conto che in alcuni casi la monetizzazione non è così diabolica come lui pensa, o che almeno Goethe non la pensava così. Anzi, al contrario, si potrebbe sostenere che Goethe avrebbe profondamente detestato i banchieri che ci hanno portato alla crisi del 2007-08 e da cui non riusciamo ad uscire. E probabilmente ne avrebbe dato la colpa alla teoria dell’Austerità dei suoi compatrioti
Il Mefistofele di Goethe a un certo punto si occupa anche di politica monetaria. Prende Faust e lo porta a visitare uno Stato che sta degenerando nel caos, uno Stato dove la disonestà, la corruzzione, la criminalità prevalgono (una sorta di Italia odierna). I partiti politici si sono quasi liquefatti, i politici sono considerati dal popolo per la maggior parte pessimi imbroglioni. Lo Stato di Goethe fa pensare al periodo di passaggio in cui i 300 staterelli che esistevano quando Goethe era nato si trovavano sull’orlo della loro fine. In questo Stato dove tutti si lamentano, nessuno ha più i soldi per saldare i debiti, le industrie licenziano perché non più competitive, Mefistofele giunge alla conclusione che la causa di tutto ciò è la troppa austerità, lo Stato non corre il rischio di una alta inflazione, al contrario sta entrando in un periodo di deflazione. Quello che manca a tutti, cittadini, imprese, lo Stato stesso è la moneta. Non appena l’Imperatore comincia a stampare moneta, tutto migliora. I generali sono finalmente soddisfatti perché possono pagare gli stipendi arretrati ai soldati, il Tesoro può pagare i suoi fornitori, e tutti i sarti del regno che non ricevevano ordini da mesi possono ricominciare a lavorare, il mercato immobiliare, fermo come quello italiano (nel 2012 la compravendita delle case è scesa del 25%) si riprende, perché persino la classe media Può ricominciare a comprare case decenti. Tutto migliora nel Regno non appena si comincia a stampare moneta.
Naturamente Goethe era ben a conoscenza di quello che aveva combinato in Francia anni addietro l’avventuriero scozzese John Law, prima aveva rilanciato l’economia e poi l’aveva precipitata in una spirale inflazionistica stampando troppa moneta, lo stesso errore compiuto qualche anno più tardi dal Governo rivoluzionario repubblicano. Ma Mefistofele in questo caso non è un demone distruttivo, ma, come è introdotto nel prologo, è uno che sembra sempre volere il male ma alla fine produce il bene. Insomma da Goethe non si deduce facilmente, caro Weidman, che una politica monetaria ingegnosa conduce necessariamente alla dannazione eterna.
Detto questo, non c’è nessun dubbio che bisogna stare molto attenti quando si crea moneta con un semplice soffio, fiat money, come viene di solito chiamata la moneta che non ha nulla di concreto, oro o argento, alle sue spalle. Basta un soffio delle autorità monetarie per dar vita a nuova ricchezza anche se solo cartacea (oggi diremmo elettronica). La creazione di moneta è una medicina molto potente ma può anche rivelarsi un veleno, soprattutto se la decisione sulla stampa di moneta viene lasciata esclusivamente ai politici. Per questo, negli anni Settanta e Ottanta, quando l’inflazione era un grosso pericolo, si è arrivati al concetto quasi universale che la Banca Centrale dovesse essere indipendente dai Governi.
Ma in passato, nessun economista, nemmeno Milton Friedman, ha mai escluso che un deficit dello Stato possa essere finanziato con nuova moneta piuttosto che debito. Anzi, in un articolo pubblicato sulla American Economic Review del giugno 1948, Friedman suggeriva non soltanto di finanziare qualche volta il deficit di bilancio stampando moneta, ma di farlo sempre, soprattutto quando si deve rilanciare la domanda e non ci sono pericoli di inflazione perché questo sarebbe stato preferibile al finanziamento con un debito ad interesse. Infatti, sia Keynes che Friedman si sono trovati d’accordo su un punto: di fronte a un pericolo di deflazione non c’è altro da fare che stampare moneta. Friedman avrebbe preferito un elicottero che gira sopra New York, Chicago, Los Angeles, San Francisco buttando giù quintali di dollari. Keynes suggeriva di riempire bottiglie vuote di sterline, nasconderle in vecchie miniere abbandonate e far lavorare presunti minatori a riportarle alla luce (lavoro che ci sembra inutile, meglio l’elicottero di Friedman in questo caso). E il presidente della Fed Ben Bernanke, in un discorso fatto davanti alla Japan Society of Monetary Economists a Tokio il 31 maggio 2003 aveva suggerito che il Giappone avrebbe dovuto considerare tagli fiscali (riuzione del cuneo fiscale) interamente finanziati con la creazione di moneta.
Quando persone come Friedman, Keynes e Bernanke, che hanno tutti ben chiaro che il controllo dell’inflazione debba essere uno degli obiettivi principali di qualunque politica economica, si trovano però d’accordo che in alcuni casi, come quello in cui un’economia è in profonda deflazione, la monetizzazione non è da escludere, perché dovremmo escluderla noi? Solo perché alcuni economisti della Bundesbank sono contrari? Ma non sono questi gli stessi che hanno suggerito la peggiore politica (l’austerità) che povesse essere sostenuta in un momento come quello vissuto dopo la crisi e che in Italia abbiamo avuto la sfortuna di avere un primo ministro che l’ha implementata meglio di ogni altro in Europa?
Insomma ci sono circostanza in cui l’opzione dell’OMF non dovrebbe essere esclusa a priori, soprattutto in un momento come quello che stiamo vivendo in cui l’obiettivo prioritario è rilanciare la domanda di consumi e investimenti e non certo un inflazione eccessiva. Secondo i manuali di politica economica che si studiano oggi nelle università le leve di politica economica che possono alzare il livello della domanda aggregata sono i seguenti:
1 Politica fiscale, con disavanzo nel bilancio dello Stato
2 Politica monetaria, agendo sul livello del tasso di interesse
3 Operazioni sulle riserve e sui capitali delle banche private
4 Supporto delle banche centrali alla concessione di credito alle imprese.
Tutte queste politiche dovrebbero essere in grado di influenzare il tasso di crescita nominale del Pil, che può essere però composto o soltanto da un aumento dei prezzi, e quindi dell’inflazione, oppure da un aumento della produzione reale, oppure da una via di mezzo tra i due.
Ma quanto siano efficaci, per stimolare la domanda, questi strumenti, in condizioni di mercato radicalmente diverse dal passato e soprattutto qual è il mix ideale nell’aumento del Pil nominale tra aumento dei prezzi e aumento reale? In linea di massima si potrebbe dire che la crescita nominale sarà più o meno dovuta all’inflazione o a una crescita della produzione di prodotti e servizi in relazione al livello di disoccupazione o di capacità inutilizzata degli impianti e anche dal grado di flessibilità del mercato del lavoro e nello stabilire i prezzi delle merci.
Insomma, alla fine, la domanda che chi si occupa di politica economica dovrebbe porsi, soprattutto in un periodo come questo dove la domanda langue, è questa: quali potrebbero essere gli strumenti più efficaci per rilanciarla? E non dovremmo mai dare per scontato che un’economia ingessata da 1000 vincoli, dal mercato del lavoro a forti barriere all’ingresso nei vari business, possa, eliminando questi vincoli, portare ad una maggiore crescita. Se manca la domanda, nessuna riforma strutturale porterà mai a un aumento del PIL, sia esso nominale o reale. Insomma, nessuna riforma del mercato del lavoro, anche la più drastica come l’abolizione completa dello statuto dei lavoratori, potrebbe portare ad un aumento della domanda di autovetture o di libri. In un mercato stagnante, come è ora quello italiano, questo potrebbe al massimo portare ad un aumento della quota di mercato della Fiat o a un aumento delle esportazioni, ma di per sé non rilancerebbe il Pil, a parte l’effetto esportazioni.
Come scrive Milton Friedman nel 1948, la funzione principale delle autorità monetarie dovrebbe essere quella della creazione di moneta per finanziare un deficit pubblico e il ritiro della moneta quando il Governo ha un surplus. L’articolo di Friedman nel 1948 si basava sul lavoro di 2 altri economisti, Henry Simons e Irving Fischer che, scrivendo a metà degli anni Trenta avevano riflettuto in modo approfondito sulle cause del crollo del 1929 e la Grande Depressione che ne era seguita, arrivando alle conclusione che il problema centrale era stato dovuto a una crescita eccessiva del credito privato prima del 1929.
E’ vero che Keynes disse: “Non c’è maniera più sottile e sicura per abbattere la base della società che svilire la moneta. Le forze nascoste delle leggi economiche vengono arruolate in un processo distruttivo”.
Oggi però le banche centrali hanno un obiettivo di inflazione di circa il 2% e fanno fatica a raggiungerlo. Quando il tasso di inflazione è sotto il 2% – come avviene in Italia, in Europa, in USA e in Giappone le banche centrali hanno non solo il diritto ma il dovere di intervenire per riportare la dinamica dei prezzi al consumo sulla retta via.
La Fed ha addirittura acquistato dalle banche titoli cartolarizzati che hanno dietro prestiti alle imprese, la stessa ricetta che ora propone in una intervista a Repubblica (26-5-2003) Lucrezia Reichlin che ora sostiene che la BCE dovrebbe fare lo stesso: “Dai due lati dell’Atlantico, anche se le politiche monetarie hanno forme diverse, il problema è simile: le banche centrali hanno allargato il loro territorio di intervento tradizionale. Tutto ciò è avvenuto senza che l’inflazione crescesse oltre l’obiettivo del 2%. Le banche centrali hanno acquisito rischi di credito nei loro bilanci e ancora non è chiaro quali saranno le conseguenze che ne deriveranno. Comunque la BCE può fare di più, come prendere parte al processo di cartolarizzazione dei crediti per rilanciare le erogazioni alle imprese. Avviene così. Le banche di ogni Paese prestano a tassi ragionevoli denaro alle piccole aziende, coso che oggi non avviene o avviene a costi proibitivi, poi li impacchettano in titoli di nuova creazione che scontano presso la BCE…. Tutto questo si può fare se si mantiene trasparenza e indipendenza”.
Come abbiamo già detto varie volte, il cieco rigorismo della Bundesbank e della Merkel ci ha portato in una situazione mai vista prima in Europa, deflazione e crescita reale negativa, altissima disoccupazione. Le conseguenze sono davanti agli occhi di tutti. I Paesi dell’Europa sono quelli che sono andati peggio dopo il 2008. Ora quello che serve è un aumento rapido della domanda nominale aggregata.
Ma anche se uno volesse è possibile oggi una politica di QE o OMF, cioè monetizzazione, nell’Eurozona, considerando le caratteristiche dell’area nella quale i debiti non sono a livello federale ma dei singoli Stati?
Politicamente, per ora, probabilmente no. Ogni operazione di QE o monetizzazione avrebbe dei risvolti politici di redistribuzione che non sono presenti in un sistema fiscale e monetario unitario. L’acquisto diretto di bond italiani o spagnoli sarebbe l’equivalente della Fed che acquista debito dalla California o dall’Illinois. E, anche se questo fosse possibile con un accordo tra Stati (acquisto di debiti statali da parte della BCE in linea con qualche sistema proporzionale legato al PIL o al debito), una decisione politica su quale sarebbe la giusta proporzione sarebbe quasi impossibile da trovare.
In pratica però un certo grado di flessibilità è possibile, come ha dimostrato Draghi a luglio e settembre del 2012. In termini di economia monetaria, comprare Bond direttamente dal Governo (primary market) o acquistare Bond sui mercati finanziari non fa una differenza fondamentale in termini economici, anche se la BCE ci tiene a precisare che la eventuale creazione di moneta con l’acquisto di Bond viene sterilizzata con l’apertura di un deposito su se stessa, così che tecnicamente la base monetaria rimane invariata. Ma anche se la BCE avesse libertà di fare operazioni di monetizzazione, questa in un sistema in cui gli interessi dei singoli paesi divergono sempre di più, la possibilità che la monetizzazione possa essere tenuta all’interno di una stretta disciplina, incontrerebbe difficoltà estreme. Quindi, fin quando non si giungerà ad una vera e propria Unione Bancaria e alla costruzione di un vero e proprio Tesoro europeo con propria autonomia di imposizione fiscale, e possibilità di indebitarsi con propri Eurobond, sembra difficile che alla politica monetaria europea possa aggiungersi l’ulteriore strumento del QE o della monetizzazione. E temiamo che se non se ne comincia a discutere sin da ora, quest’ultimo rimanga un tabù assolutamente insuperabile in Europa.
In ogni caso, anche assumendo che il completamento dell’Unione Bancaria e di un vero e proprio Tesoro europeo possa avvenire in tempi brevi, come auspica Hollande, bisognerà stare comunque molto attenti a questo strumento che potrebbe rivelarsi una medicina molto pericolosa, in alcuni casi addirittura letale, se lasciata solo alle decisioni degli uomini politici. Bisognerebbe trovare una via intermedia di controllo tra la tecnocrazia della BCE, la Commissione Europea e il Parlamento Europeo.
I vantaggi della monetizzazione per stimolare la domanda sono argomentati molto bene nell’articolo del 2003 di Bernanke sul Giappone.
1 Si potrebbero ridurre in modo drastico la tassazione su famiglie e imprese, riducendo in modo drastico il cuneo fiscale con acquisto di Bond a zero interesse da parte della BOJ, così che la riduzione del cuneo verrebbe finanziata con creazione di moneta.
2 Dovrebbe essere reso chiaro che “una parte consistente o tutto l’aumento della base monetaria dovrebbe essere visto come permanente”.
3 E’ importante che il punto precedente sia reso chiaro sia alle famiglie che alle imprese, di modo che esse spendano la riduzione fiscale poiché “non c’è nessun aumento del servizio del debito che deve essere ripagato con tasse future”.
4 Bernanke argomenta anche che questa politica di monetizzazione porterebbe ad una inevitabile riduzione del rapporto debito pubblico/Pil poiché il debito rimarrebbe invariato mentre il Pil nominale dovrebbe crescere rapidamente con l’aumento della domanda.
5 Bernamke ci tiene a sottolineare che oltre che per il cuneo fiscale, la monetizzazione potrebbe anche essere usata per supportare programmi di spesa per investimenti e per facilitare ristrutturazioni industriali.
La monetizzazione, se l’obiettivo è quello di aumentare la domanda, è più efficace di tutti gli altri strumenti di politica economica poiché va subito a incidere su quello che Friedman nel suo articolo chiama income stream, flusso dei redditi. Come dice Friedman: “La ragione data per finanziare un deficit con il debito piuttosto che con l’aumento delle tasse in un periodo di alta disoccupazione e che è meno deflazionistico usare il debito piuttosto che aumentare le tasse: Questo è vero. Ma è ancora meno deflazionistico emettere moneta”.
Elido Fazi