I due partiti vincitori delle elezioni trovano l’accordo per indire un referendum sull’adesione all’Ue. E a Londra gli “antieuropei” festeggiano. Però, a Bruxelles, i più non drammatizzano
di Marco Zatterin su Straneuropa
I due partiti vincitori delle elezioni legislative islandesi dello scorso aprile hanno annunciato di avere trovato un accordo di governo che prevede un referendum sull’adesione all’Unione europea. Una mossa inevitabile, hanno detto i rappresentanti della coalizione governativa formata dal Partito del Progresso (centro) e il Partito dell’Indipendenza (destra), entrambi euroscettici per tradizione. Tutti si aspettano che vinca il “no” e che l’Islanda risanata dopo gli eccessi che hanno portato alla crisi finanziaria continui sulla sua strada di indipendenza (relativa).
I nemici dell’integrazione comunitaria hanno già visto in questo un segnale dell’indebolimento della capacità di attrazione dell’Ue, l’ennesima prova dell’inizio della fine. A Londra c’è chi ha fatto festa, a partire dagli UKip, il partito antieuropeo. L’Unione è un giocattolo rotto, dicono, e in effetti è sempre un gioco facile prendersela con Bruxelles. La ridotta conoscenza dei meccanismi comunitari – soprattutto il gioco di ombre che fa sempre sì che sia colpevole delle scelte sbagliate e i governi, cioè i titolari dell’azione legislativa, abbiano solo il merito dei successi – aiuta il gioco chi agisce contro.
In realtà, il probabile “no” islandese non è un davvero problema. In buona misura era anzi scontato. Si sono riavvicinati all’Ue quando avevano le “pezze al culo” – per usare un temine non classico ma efficace – cucite dall’assenza di etica e dall’ingordigia dei banchieri che hanno sfruttato l’assenza di briglie autorizzata ai governi isolani. Ora che il peggio è alle spalle – grazie anche a un referendum in cui è stato chiesto ai cittadini se lo stato dovesse restituire i soldi ai risparmiatori stranieri frodati dalle banche locali (ovviamente, “perché farlo?”, è stata la risposta) – l’Islanda non ha più interesse ad approfondire il legame con Bruxelles.
Del resto, come ha sottolineato nelle scorse ore un capo di stato e di governo dell’Unione, Reykjavik partecipa ad un grande numero di programmi comunitari e, alla luce degli opt out di Londra, “é quasi più integrata del Regno Unito nell’Unione”. La sua presenza in quel che resta dell’Efta, l’accordo di libero scambio, la rende partecipare del grosso delle politiche comunitarie. “De Facto sono membri”, sottolinea il leader. “Non ci preoccupiamo, ci sono molto vicini. Più di certi altri..”
Certo sarebbe stato meglio averla a pieno titolo, ma così, in fondo, non fa differenza. E non si tratta di una questione da “volpe e una”. Per certi versi è magari meglio, non servono ulteriori conflitti e chi entra deve venire per costruire insieme con gli altri e non per rappresentare un ulteriore motivo di disturbo.
Basta pensare al merluzzo e suoi cugini, ragione di guerre storiche nei secoli fra i britannici e gli islandesi, e non solo fra loro. Certo a Reykjavik si sono presi la soddisfazione di consentire alle banche fallite di rubare i soldi ai correntisti, cosa che nell’Unione europea non sarebbe stata possibile, perché i conti sono tutelati sino a 100 mila euro per tutti. Una bella vendetta. La prova, se ce ne fosse stato ancora bisogno, che il pesce e il denaro sono questioni molto scivolose per i rapporti fra gli umani.
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