L’allargamento dell’Ue moltiplica le lingue ufficiali e il conseguente lavoro di traduzione. Usare solo l’inglese? Impossibile, questione di democrazia
Bulgaro, ceco, danese, estone, finlandese, francese, greco, inglese, irlandese, italiano, lettone, lituano, maltese, olandese, polacco, portoghese, rumeno, slovacco, sloveno, spagnolo, svedese, tedesco, ungherese. Ormai è un lavoraccio anche solo elencarle tutte. Pensate come può essere tradurre, ogni giorno, in ognuna delle 23 lingue ufficiali dell’Unione europea, ogni singolo regolamento e atto normativo. Un lavoro faraonico, destinato a diventare sempre più impegnativo nei prossimi anni, mano a mano che gli attuali 27 aumenteranno di numero: presto l’ingresso della Croazia porterà le lingue ufficiali a 24 e nel giro dei prossimi 15-20 anni si potrebbe arrivare facilmente a 30.
Una babele di non facile gestione che, soprattutto in tempi di austerity, viene sempre più spesso additata come un costo inutile che si potrebbe tagliare, ad esempio adottando come sola lingua ufficiale quell’inglese che sta già spontaneamente diventando una lingua franca parlata e compresa più o meno da tutti. “Impossibile. Dietro a questo discorso di lingue sta un discorso di democrazia” spiega Diego Marani, scrittore e funzionario della direzione generale interpreti alla Commissione europea: “Non si può adottare la lingua di un Paese a scapito di altri 26. Si darebbe un vantaggio smisurato a un popolo, a dispetto degli altri”. In concreto: cosa sarebbero capaci di fare gli italiani se ricevessero le loro direttive in inglese o fossero obbligati a partecipare a gare d’appalto europee esclusivamente in inglese?
Secondo le statistiche di Eurostat e Eurobarometro, aggiunge il finlandese poliglotta (con una decina di lingue all’attivo) Johan Haggman, coordinatore del team della Commissione europea che si occupa di multilinguismo, il 50% della popolazione europea sa l’inglese o ne ha qualche base, ma soltanto il 20% ne ha conoscenze abbastanza approfondite da poter comprendere la legislazione che li riguarda: per questo “la traduzione in tutte le lingue ufficiali è una questione democratica e di trasparenza”.
Senza contare che il costo non è elevato quanto si potrebbe pensare. Tutta la traduzione e l’interpretazione delle istituzioni europee: Commissione, Consiglio, Parlamento, Comitato delle Regioni e Comitato economico e sociale, calcola Haggman, costa 1,1 miliardi all’anno. “Se lo si divide per la popolazione dell’Ue, che è di 500 milioni di persone, diventa 2,2 euro per persona ogni anno: costa come un caffè macchiato, diciamo un cappuccino”. Una spesa che pesa per meno dell’1% del bilancio totale dell’Ue, pochissimo se comparato ad esempio all’agricoltura che ne costituisce il 40%.
Per motivi di tempo e di risorse finanziarie, è stato comunque limitato il numero dei documenti di lavoro tradotti in tutte le lingue. La Commissione europea ha adottato tre lingue procedurali di lavoro: l’inglese, il francese e il tedesco, mentre il Parlamento europeo fa tradurre i suoi documenti a seconda delle necessità dei parlamentari.
Sebbene un Commissario europeo specificamente votato al multilinguismo sia esistito soltanto dal 2007 al 2010, anche oggi la Commissione continua il suo lavoro di sostegno alle politiche che in questo settore vengono messe in campo dagli Stati membri, unici ad avere la sovranità su questo tema.“Il multilinguismo che noi intendiamo alla Commissione è il multilinguismo di un individuo che conosce più lingue” ricorda Diego Marani. “Al Consiglio europeo di Barcellona del 2002 – continua – ai governi scappò detto che si ponevano come obiettivo che i cittadini europei parlassero la loro lingua più due lingue straniere, e questo ci ha dato la possibilità di chiedere un resoconto agli Stati membri su cosa stessero facendo per raggiungere questo obiettivo”.
La teoria che vogliamo diffondere, spiega anche Johan Haggman, è il valore aggiunto a livello personale e professionale della conoscenza delle lingue: “Una persona che parla più lingue ha più possibilità di trovare un lavoro o di essere promosso nell’organizzazione o nell’impresa in cui lavora”. Uno studio fatto in Gran Bretagna, continua il funzionario del multilinguismo, dimostra che le imprese britanniche perdono opportunità di commercio a causa delle carenze linguistiche. Soprattutto le piccole e medie imprese hanno difficoltà a conquistare nuovi mercati perché hanno personale monolingue. “Si può comprare in tutte le lingue ma si può vendere solo nella lingua del consumatore”, conclude Haggman. Per questo “ci serve sapere anche le lingue di altri continenti o di Paesi terzi, come il cinese, l’indù, l’arabo, lo spagnolo per l’America latina o il portoghese per il Brasile, oppure l’Europa non potrà più concorrere con gli altri continenti”.
In un periodo così difficile per l’occupazione, insomma, la conoscenza delle lingue dà un vantaggio competitivo non trascurabile. “La employability è il nostro criterio ora”, chiarisce Diego Marani: “Cerchiamo, quando ci vengono presentati i progetti di finanziamento di dare maggiore attenzione a quelli che sviluppano maggiore possibilità di impiego con conoscenza lingue”. Senza contare che ci sono diverse nuove professioni che emergono in questo campo. “C’è ad esempio una nuova professionalità linguistica specifica che si sta sviluppando che in inglese si chiama Legal interpreting (interpretazione giuridica). In concreto si tratta di fornire assistenza giuridica ad un imputato che non parla la lingua ufficiale del paese in tutto l’iter giudiziario dall’incriminazione al processo”, racconta il funzionario italiano. Ma si tratta solo di uno tra i tanti esempi possibili.
L’invito a studiare le lingue, però, non sempre fa presa, sopratutto in Gran Bretagna, per cui la diffusione dell’inglese sta diventando un’arma a doppio taglio. “I britannici non percepiscono più la competenza linguistica come una necessità, visto che dovunque vanno trovano gente che parla inglese” racconta il funzionario italiano. Una tendenza che sta causando qualche problema alla Commissione, in difficoltà nel reperire interpreti e traduttori anglofoni: “Ora che va in pensione la grossa generazione di interpreti che ha cominciato a lavorare negli anni ’70 – continua Marani – abbiamo difficoltà nel ricambio generazionale: quando ci sono i bandi non riceviamo abbastanza candidature o non troviamo persone abbastanza competenti”.
Letizia Pascale