Quando una birra costa sette euro, le banche si salvano e i lavoratori perdono l’occupazione e dormono per strada, la fiducia nell’Unione non c’è più.
“E’ molto meglio se non ce li danno questi soldi. Più soldi chiediamo e peggio sarà per noi”. I sorrisi di Nicoletta e Vassili scompaiono quando si parla del loro paese e dell’Unione europea. La crisi ha colpito al cuore, ma le misure imposte dalla comunità internazionale sono forse la cosa peggiore. Per loro e per molti altri come loro, l’Europa non è altro che un fattore di peggioramento della situazione. Non un aiuto, ma una condanna. Vista da fuori la Grecia ha un sapore amaro, e non ne fanno mistero. Sono giovani, laureati, dottorati, hanno un lavoro, ma scontano loro malgrado la loro provenienza: essere greci, oggi, è un lusso che possono permettersi in pochi. Al contrario, è una condanna per molti. “La gente dorme per strada”, lamenta Nicoletta, troppo giovane per essere così preoccupata per il presente e, soprattutto, per il futuro. “Gente della stessa età di mio padre, sempre più numerosa. Le banche vengono salvate, ma a quale prezzo? C’è una crisi umanitaria in Grecia, ma a loro non interessa”. Il riferimento è a quanti impongono al governo greco condizioni insostenibili per i prestiti. I vari Rehn, Dijsselbloem, Lagarde.
“Tu lavori lì, dimmi che sono consapevoli di quello che fanno”, mi dice la giovane quasi a supplicarmi. Ha trentun anni, e come tutti quelli della sua età ha gli stessi sogni, progetti aspettative di tanti suoi coetanei: tornare a casa e avere una famiglia. Ha studiato in Francia, da quattro anni vive in Germania, ma si capisce che vuole smettere di inseguire un avvenire. “Ho un sogno: quando mi fermerò in un posto in maniere definitiva voglio allestire una stanza dove mettere tutti i libri che ho”. Colpisce la semplicità delle parole e dei desideri, il bisogno delle piccole cose. Vassili ascolta, lascia che a parlare sia sua moglie. Lui è più taciturno, ma non per questo meno preoccupato. Ma preferisce sdrammatizzare. “Quanto costa da voi una pinta?”, chiedo, anche per cambiare argomento. “Vuoi sapere il prezzo di prima o dopo la crisi?”, mi risponde Vassili dietro un sorriso che nasconde la consapevolezza di una realtà sempre più indecifrabile, dalle mille incognite e dalle altrettante problematiche. La vita costa cara. Una birra può arrivare a costare anche 7 euro. “Ci danno soldi per tagliare il personale, ridurre le spese, generare disoccupazione. E mentre il potere d’acquisto diminuisce, i prezzi aumentano”. A parlare è di nuovo Nicoletta, sguardo perso chissà dove. “Dicono che ci vogliono mantenere nell’euro, ma a che serve? Questa Europa non funziona”. Dà un’occhiata alla sua birra, una birra tedesca, elemento ricorrente di questa sua vita. “Almeno è buona”, dice, e le sue labbra finalmente disegnano un sorriso su un viso per troppo tempo corrucciato. Vassili le prende la mano, si guardano e sorridono entrambi.
Cosa faranno, non si sa. Si sono sposati, e l’hanno fatto nel loro paese. Probabilmente vogliono tornarci in Grecia, in fin dei conti tutti hanno nostalgia di casa. Ma per ora non se ne parla. Lei ha un contratto di lavoro a Potsdam, lui uno a Berlino. Per qualche anno resteranno in Germania, poi chissà. Il futuro è qualcosa di imperscrutabile, oggi più che mai. Soprattutto se sei greco. “Quindi ci devono concedere altri prestiti?”, mi domanda Nicoletta. Sì, sette miliardi e mezzo. “E’ meglio se non ci li danno. Più soldi ci danno e più ci uccidono”. Il cameriere arriva e sputa parole in tedesco, suoni incomprensibili anche per Nicoletta. Risponde Vassili. “Vivo qua da quattro anni e ancora non so il tedesco”, confessa Nicoletta. Viene da pensare che ci sia un motivo: quando si impara la lingua del posto è perché ti serve per vivere. Forse lei non ha intenzione di rimanere qui. Ma non lo domando, anche perché è giunto il momento di andare. Il cameriere torna con la ricevuta. “C’è sempre un conto da pagare…”, dice Vassili alludendo forse alla sua Grecia. “Ora potremmo andare ad Alexanderplatz”, suggerisce Nicoletta. Non è più tempo di preoccuparsi. Non per questo pomeriggio.
Renato Giannetti