La cultura vien dalla campagna perché significa innanzitutto coltivare e se i tanti che imprecano contro l’indifferenza italiana verso la nostra più grande ricchezza si soffermassero ogni tanto a darle un’annaffiata, forse parlandone di meno se ne farebbe di più. A cominciare dalla poesia, che è la più astrusa delle lettere ma anche la più antica e suprema nostra specialità. Così a molti sarà sfuggito che questo 2013 segna il centenario di un poeta proprio di campagna, marginale e perfino sconosciuto a tante antologie. Ma qualche lucido critico riconoscerà che Corrado Govoni quando nel 1903 pubblicò “Le fiale” e “Armonia in grigio et in silenzio” fu un innovatore e un precursore, anche della poesia nuova cui sarebbe arrivato il Gruppo ’63.
E qui scopro le carte, perché Govoni era un ferrarese come me, mica di città ma appunto di quella campagna dove le cose se non sprofondano nel fango se le succhia via la nebbia, dove d’estate la calura soffoca anche i rintocchi delle campane e la polvere fuma nell’aria senza mai cadere, dove anche il deserto si sentirebbe solo e chi ci resta troppo a lungo contrae un’incurabile malinconia che è come una tossicodipendenza: richiede dosi sempre più potenti. È per questo che a noi della Bassa ogni tanto ci tocca correre a struggerci all’ombra di un pioppo solitario.
Corrado Govoni nacque a Tamara, a qualche decina di chilometri da Ferrara, nel 1884 e morì a Lido dei Pini, vicino a Roma nel 1959. Attaccato alla sua terra, fu dapprima agricoltore e poi commerciante ma qualche avversità lo costrinse a lasciare la provincia ferrarese per trasferirsi a Roma dove accettò un modesto impiego pubblico. Visse appartato, lontano dal mondo letterario, ma partecipando attivamente con i suoi scritti alla vita culturale del periodo.
I motivi della poesia di Govoni sono sostanzialmente crepuscolari e in qualche modo anche dannunziani, con tardive contaminazioni futuriste. Ma fin dai suoi primi sonetti il poeta ferrarese si stacca dalla tradizione ottocentesca e comincia a scardinare la rigidità scolastica classica usando una prosaicità che aprirà la via al verso libero. I suoi temi preferiti sono quelli della vita nei campi e dei paesaggi brulli della sua campagna, dove “i fienili sono grandi come chiese”.
(da “L’ora di notte“:)
È finita la cena, e s’è già sparecchiato.
Sul tavolo unto, come chioccia tra i pulcini, c’è la rustica mezzina
Tra i bicchieri, col vino sparagnato dalla grande botte
Che sembra reggersi la pancia dentro la cantina.
L’angelus della sera è stato recitato,
E i campanili s’augurano la buona notte.
Ed ora si sta tutti intorno al fuoco sull’arola
Come in un almanacco fiammingo,
nelle sedie impagliate ad ascoltare
il vento che borbotta nell’affumicata gola
del camino ch’è l’orco casalingo
pensando a la burrasca che farà nel mare.
Sul davanzale contro i vetri una pentola vuota
Che porta sopra il capo una berretta
Del grigio afflitto adoperato nei ricoveri
Sembra s’accosti a un’altra sua compagna fortunata con un gelsomino che fa la ruota
Come un paone bianco e le rimproveri
Di portare un cappello a fiori come una civetta.
Il gatto dorme con il capo sulla pancia morbida del cane
Che à due occhi grandi e buoni e à nome Fido;
il merlo dorme nella gabbia su una zampa.
E l’orologio ponza dieci uova d’ore nel suo nido,
contro il muro con la veduta d’una stampa.
Domattina bisogna alzarsi presto a fare il pane.
La luna anima i muri e i gradi della scala
D’ombre giganti che par seguano un fantastico convoglio (…)
Di questi versi Giuseppe Ravegnani nel 1959 scriveva che la loro poesia sembra disarmata e tesa ad un linguaggio quasi depauperato ma diversamente involuto. Uno stile che è stato definito “barocco govoniano” traboccante nella ridondanza, nelle minute descrizioni di questi frusti interni che al posto di stucchi e putti ostentano i minuti oggetti di una quotidianità agreste.
La poesia di Govoni è un continuo riflesso del dettaglio nel paesaggio, una conversazione fra due distinte tristezze dove ognuna vuole avere l’ultima parola. E siccome di crepuscolare si tratta, al crepuscolo tutto si riconduce. Ecco due speculari crepuscoli che racchiudono nella loro geografia tutta l’anima della poesia govoniana.
Crepuscolo ferrarese
Il mao si stira sopra il davanzale
sbadigliando nel vetro lagrimale.
Nella muscosa pentola d’argilla
il geranio rinfresca i fiori lilla.
La tenda della camera sciorina
le sue rose di fine mussolina.
I ritratti che sanno tante storie
son disposti a ventaglio di memorie.
Nella bonaccia della psiche ornata
il lume sembra una nave affondata
Il cielo chiude nella rete d’oro
la terra come un insetto canoro.
Dentro lo specchio, tra giallastre spume
ritorna a galla il polipo del lume.
La tristezza s’appoggia a una spalliera
mentre le chiese cullano la sera.
Sul tetto d’una prossima chiesuola
sopra una pertica una ventarola
agita l’ali come un uccelletto
che in laccio pei piedi sia stretto.
Altissimi, per l’aria, dai bastioni,
capriolano fantastici aquiloni.
Le rondini bisbigliano nel nido.
Un grillo dentro l’orto fa il suo strido.
Qui il paesaggio ferrarese esala tutta la sua pestilenza esistenziale, carico di un’umidità che è quasi umorale. C’è una tristezza malata in questo vegetare funghesco che smorza le cose dal di dentro e le lascia come animali impagliati, apparentemente incolumi ma cadaveri. Pentole rotte e fiori smorti, acque ferme e silenzi stagni sono l’armamentario della lirica govoniana. Nella poesia seguente Govoni torna alla sua campagna, che è soltanto una Ferrara sbriciolata per terra, di mattoni fattisi zolla, di palazzi che hanno perso il volume ma non l’ombra. L’irruzione futurista del treno non basta a frantumare la staticità del paesaggio che all’apparenza è marmoreo ma dentro è liquido e solo la fotografia delle parole riesce a inciderlo.
Crepuscolo sul Po
Come un frutto maturo cade il giorn
dal ponte che cavalca il fiume suona un corno
Con uno strepito
un treno fora il vuoto su la via ferrata
I rumori pel silenzio stenografo
sfuman come figure d’un cinematografo.
Il vento studia da flautista.
Il cielo è svelto simile a un trasformista.
L’acqua che corre corre al mare
si tinge il viso di lillà crepuscolare.
Dentro, le case mirano a la riva
la loro immagine che sembra fuggitiva.
In una barca piena di legumi
mentre le case sbocciano dei bianchi lumi,
una donna con una guasta ventola
incita il fuoco sotto la sua vecchia pentola.
Chi ha saltato le poesie per venire a leggere la fine dell’articolo è meglio che si penta e torni indietro. Perché scopo di tutto questo scritto era proprio questo: ridare fiato al verso poetico e alla sua introversione, ripristinare il ritmo del pensiero profondo nelle nostre menti sopraffatte dalla superficialità. Un ritmo forse più adatto a quel rivangare assorto che come ogni coltivazione la cultura richiede. Oggi per fruire della cultura abbiamo bisogno di ammassarla in grandi eventi dove ne bruciamo smisurate cataste. Ma alla fine ce ne resta solo il fumo. Perché la cultura vera non è il grande evento, non è la coltura dispersiva di sconfinate estensioni di tutto ma la quotidiana annaffiatura anche di un solo libro, di un solo quadro, del più dimenticato dei poeti. È così che si insinua nella quotidianità l’abitudine all’elevazione e al pensiero complesso che invisibilmente nutre una civiltà. Allora non c’è più bisogno di solenni richiami e sperticati appelli a valorizzare e difendere la nostra cultura. Non c’è neppure bisogno di nominarla: è attorno a noi, è come l’aria che si respira e anche il più futile anniversario diventa un grande evento.
Diego Marani