Era forse per sembrare milanese che mia zia emigrata a Milano dalla bassa ferrarese comperava i dischi di Enzo Jannacci. Così io quando andavo a trovarla ascoltavo le sue canzoni credendo che fossero l’ultima moda della metropoli ribollente che mi faceva tanta paura con tutte quelle macchine che andavano anche di notte e quelle folle sciamanti di gente scontrosa. Appena mia cugina lasciava libero il giradischi dai suoi Celentano e Rita Pavone, io ci mettevo, “T’ho compraa i calzett de seda”, “L’era tardi” e “Ma mi”. Proprio quelle in milanese mi piacevano di più, anche se non le capivo sempre del tutto. Perché mi dicevo che il dialetto di una città così grande doveva di certo essere potente e prestigioso. Doveva essere il Latino del nord quella lingua piena di ü. E immaginavo che avrei fatto una bellissima figura con le mie compagne di classe cantando loro a memoria “El purtava i scarp del tenis”. Invece loro sbavavano per i Cugini di campagna e alzavano le spalle indifferenti davanti ai miei struggimenti meneghini. Chi era quel Jannacci? Un comico o giù di lì, con gli occhiali spessi del miope e la faccia da secchione. Proprio come me. Che in più non ero neanche secchione. Ma io insistevo con “Faceva il palo” e poi con la mia canzone preferita dell’anno che facevo la quinta elementare, “Messico e nuvole”: lei e’ bella lo so e’ passato del tempo e io ce l’ho nel sangue ancor. Io vorrei, io vorrei ritornare laggiù da lei ma so che non andrò. Questo e’ un amore di contrabbando meglio star qui seduto a guardare il vino che butto giù. Anche io avevo il mio amore di contrabbando, la ragazzina con le trecce che proprio non ne voleva sapere delle mie serenate. Inutile, fra le mie compagne Jannacci non faceva che nuocere alla mia immagine già eccentrica ma io mi accanivo e mi procurai in fretta una reputazione di assolutamente infrequentabile. Nessuna all’autoscontro saliva sulla macchinetta con me perché non solo non sapevo “Il cuore è uno zingaro e va” ma in più cantavo a squarciagola “Aveva un taxi nero”: che andava col metano con una riga verde allo chassis. Di notte posteggiava nel centro di Milano cercando di scordare il suo dolor…Ma come si faceva a restare insensibili a parole come queste? Era poesia, faceva ridere e piangere, faceva venire voglia di correre. Jannacci con quella sua aria da prendi in giro mi metteva addosso una tristezza che a tenerla da conto diventava allegria. Fu così che non mi persi un solo disco di lui e le canzoni che mi mancavano le aspettavo alla radio facendo partire il mio registratore a bobina Grundig appena attaccava “Silvano”: amami, amami, stringimi, sgonfiami e amami, sdentami, stracciami, applicami e dopo stringimi, dammi l’ebrezza dei tendini, prendimi, con le tue labbra accarezzami. Mio cugino capì quanto ero grave il giorno in cui gli cedetti tutti i miei rarissimi Tex in cambio del 45 giri di “Giovanni telegrafista”: quello dal cuore urgente, ellittico da buon telegrafista, tagliando fiori, preposizioni per accorciar parole, per essere più breve nella necessità… non disse parola, solo le rondini nere senza la minima intenzione simbolica si fermarono sul singhiozzo telegrafico Alba e’ urgente. Piripiri… Piripiri. Intanto ero diventato grande e dei miei gusti musicali non mi vergognavo più. E poi Jannacci adesso era famoso. Si era infine riconosciuto che era un cantautore di tutto rispetto e io che sapevo tutte le sue canzoni, ne avevo una per ogni occasione. “Per un basìn” cantai a una mia fidanzata lungo un molo facendola ridere un sacco con il mio finto accento milanese. Quando mi lasciò per un altro tornai sullo stesso molo da solo a cantare “Io e te”: io e te che ridevamo io e te che sapevamo tutto il mondo era un bidone da far rotolare. Sì perché, la bellezza dei vent’anni è poter non dare retta a chi pretende di spiegarti l’avvenire, e poi il lavoro e poi l’amore… sì ma qui, che l’amore si fa in tre, che lavoro non ce n’è l’avvenire è un buco nero in fondo al dramma.” Jannacci ancora una volta mi aveva portato conforto. Si potrebbe andare tutti quanti al tuo funerale, per vedere se la gente poi piange davvero, diceva il testo di “Vengo anch’io, no tu no”. Oggi anche da lontano mi unisco al funerale di Enzo Jannacci. Ma dietro la lacrima dilatata dal vetro spesso degli occhiali, dei miei come dei suoi, mi si accende un lampo di dolcezza per tutta la voglia di vivere che mi hanno dato le sue canzoni.
Diego Marani