Un paio di giorni fa sono stata invitata ad un seminario che si teneva nella sala stampa del Consiglio dell’UE. Appena entrata mi sono subito rivenuti in mente i miei giorni alla BBC, quando nel Consiglio ci passavo la giornata, in giro a cercare informazioni e a chiedere interviste per sapere qualcosa sul dibattito che si stava svolgendo nella sala del Consiglio europeo; correvo disperatamente sperando di riuscire a finire il pezzo in tempo per la trasmissione. Niente corse questa volta. Ma, a differenza della maggior parte di quelle occasioni, l’altro giorno, uscendo dall’edificio, ho avuto la chiara sensazione di aver partecipato a qualcosa di molto interessante, e di avere avuto modo di ascoltare persone che ti fanno veramente riflettere.
Il titolo del seminario era “Public communication in the evolving media landscape: adapt or resist?“. A parte il fatto che tutti sembravano essere d’accordo sul fatto che governi e istituzioni debbano provare ad adattarsi piuttosto che a resistere, c’era una grande varietà di opinioni e di vedute sul ruolo e l’importanza di Internet in generale e dei social media in particolare, quando si parla di comunicazione.
C’era chi ha fatto un’analisi psicologica della rivoluzione dei social media, chi ha citato la famosa frase del Gattopardo, ”Se vogliamo che tutto rimanga come è, bisogna che tutto cambi’, e chi ha paragonato (citando un professore americano) Internet ad una lavastoviglie perchè aiuta semplicemente a fare, in modo più semplice e veloce, le cose che hai sempre fatto.
Ma c’è stato un momento particolare che mi ha molto colpito. Mischa Coster, uno psicologo olandese, ha parlato di quali sono i triggers e delle emozioni che spingono le persone a scrivere, condividere, e a parlare di ciò che vedono online. Una di queste emozioni è la paura della perdita. Ha quindi fatto riferimento alla campagne sviluppate negli ultimi anni da moltissimi governi per spingere i fumatori a smettere. E, dopo aver mostrato immagini di quella più comunemente usata, cioè scritte e fotografie terribili sui pacchetti di sigarette, ci ha fatto vedere questo video:
Avevo le lacrime agli occhi. Non sono riuscita a tratternerle. E dire che pensavo di aver visto e di saperne abbastanza di come i video riescono a ‘manipolare’ per non farmi commuovere più di tanto. Ma mi sbagliavo. Quello che trovo incredibilmente potente di questo video – che viene dall’Australia – è che non si vede né si parla del fumo, tranne nell’ultima immagine, ma quello che si vede sono le possibili e drammatiche conseguenze del fumo. E senza alcun dubbio – e il pubblico in sala stampa era tutto d’accordo, una campagna molto più efficace delle scritte sui pacchetti di sigarette (piccola parentesi per tirarvi un po’ su: la conoscete quella del signore che va dal tabaccaio e chiede un pacchetto di sigarette; dopo averlo preso in mano e letta la scritta, lo ridà indietro dicendo: “non voglio questo che dice Il fumo ti uccide mi dia quello che dice Il fumo fa male a chi ti sta intorno per favore!! La dice lunga su quanto funzionano le scritte, non trovate?)
Comunque, tornando al video, è vero che essendo io un genitore e una ex-fumatrice, sono il target ideale di questo filmato, ma resta il fatto che non avrei potuto trovare un modo migliore per dimostrare l’efficacia e la forza del mezzo visivo. Però, come mi ha fatto notare mia sorella, i produttori australiani avrebbero dovuto aggiungere un disclaimer dicendo che il bambino non ha sofferto durante le riprese del film, perché sembra davvero, davvero disperato.