E’ “Il tema del mese” sul sito dell’Accademia della Crusca
Nei titoli professionali, in particolare quelli più elevati, il genere femminile scompare. Perché, per tutti, Federica Pellegrini è una nuotatrice ma Elsa Fornero non è una ministra?
La rappresentazione delle donne attraverso il linguaggio costituisce ormai da molti anni un argomento di riflessione per la comunità scientifica internazionale, ma anche per il mondo politico e, oggi, sempre più anche per quello economico. In Italia numerosi studi, a partire dal lavoro Il sessismo nella lingua italiana di Alma Sabatini, pubblicato nel 1987 dalla Presidenza del Consiglio dei Ministri, hanno messo in evidenza che la figura femminile viene spesso svilita dall’uso di un linguaggio stereotipato che ne dà un’immagine negativa, o quanto meno subalterna rispetto all’uomo. Inoltre, in italiano e in tutte le lingue che distinguono morfologicamente il genere grammaticale maschile e quello femminile (francese, spagnolo, tedesco, ecc.), la donna risulta spesso nascosta “dentro” il genere grammaticale maschile, che viene usato in riferimento a donne e uomini (gli spettatori, i cittadini, ecc.). Frequentissimo è anche l’uso della forma maschile anziché femminile per i titoli professionali e per i ruoli istituzionali riferiti alle donne: sindaco e nonsindaca, chirurgo e non chirurga, ingegnere e non ingegnera, ecc.
Forti richiami a rivedere questa tradizione androcentrica sono arrivati da diversi settori della società, dall’accademia e dalle istituzioni di molti paesi europei, per esempio dalla Confederazione Svizzera – dove l’italiano è tra le lingue ufficiali – che ha pubblicato recentemente una Guida al pari trattamento linguistico di donna e uomo nei testi ufficiali della Confederazione (2012). In Italia la Direttiva Misure per attuare parità e pari opportunità tra uomini e donne nelle amministrazioni pubbliche ha rinnovato qualche anno fa (2007) la raccomandazione a usare in tutti i documenti di lavoro un linguaggio non discriminante e ad avviare percorsi formativi sulla cultura di genere come presupposto per attuare una politica di promozione delle pari opportunità. Molte amministrazioni hanno aderito a questo invito e la stessa Accademia della Crusca ha collaborato con il Comune di Firenze al progettoGenere&linguaggio e alla pubblicazione delle prime Linee guida per l’uso del genere nel linguaggio amministrativo. Ma sia nella comunicazione istituzionale sia in quella quotidiana le resistenze ad adattare il linguaggio alla nuova realtà sociale sono ancora forti e così, per esempio, donne ormai diventate professioniste acclamate e prestigiose, salite ai posti più alti delle gerarchie politiche e istituzionali, vengono definite con titoli di genere grammaticale maschile: il ministro Elsa Fornero, il magistrato Ilda Bocassini,l’avvocato Giulia Bongiorno, il rettore Stefania Giannini.
Qual è la ragione di questo atteggiamento linguistico? Le risposte più frequenti adducono l’incertezza di fronte all’uso di forme femminili nuove rispetto a quelle tradizionali maschili (è il caso di ingegnera), la presunta bruttezza delle nuove forme (ministra proprio non piace!), o la convinzione che la forma maschile possa essere usata tranquillamente anche in riferimento alle donne. Ma non è vero, perché maestra, infermiera, modella, cuoca,nuotatrice, ecc. non suscitano alcuna obiezione: anzi, nessuno definirebbe mai Federica Pellegrini nuotatore. Le resistenze all’uso del genere grammaticale femminile per molti titoli professionali o ruoli istituzionali ricoperti da donne sembrano poggiare su ragioni di tipo linguistico, ma in realtà sono, celatamente, di tipo culturale; mentre le ragioni di chi lo sostiene sono apertamente culturali e, al tempo stesso, fondatamente linguistiche.
I meccanismi di assegnazione e di accordo di genere giocano un ruolo importante nello scambio comunicativo e meriterebbero di essere conosciuti anche al di fuori della cerchia accademica per fugare la convinzione, diffusa, che usare certe forme femminili rappresenti solo una moda. Molti ricorderanno il recente diverbio sorto in una riunione in Prefettura (a Napoli) perché un cittadino chiamava signora (essendo incerto sul termine prefetta!), invece che protocollarmente prefetto, la titolare di questa carica in una provincia vicina.
Un uso più consapevole della lingua contribuisce a una più adeguata rappresentazione pubblica del ruolo della donna nella società, a una sua effettiva presenza nella cittadinanza e a realizzare quel salto di qualità nel modo di vedere la donna che anche la politica chiede oggi alla società italiana. È indispensabile che alle donne sia riconosciuto pienamente il loro ruolo perché possano così far parte a pieno titolo del mondo lavorativo e partecipare ai processi decisionali del paese. E il linguaggio è uno strumento indispensabile per attuare questo processo: quindi, perché tanta resistenza a usarlo in modo più rispettoso e funzionale a valorizzare la soggettività femminile?
Cecilia Robustelli, per il sito dell’Accademia della Crusca, “Il tema del mese”
Cecilia Robustelli è docente di Linguistica Italiana all’Università di Modena e Reggio Emilia. Fa parte del Comitato di esperti/e della Rete di Eccellenza dell’Italiano Istituzionale (REI) presso il Dipartimento di Italiano della Commissione Europea e del Comitato direttivo della European Federation of National Institutions for Language (EFNIL). Collabora con l’Accademia della Crusca sui temi del genere e della politica linguistica italiana in Europa.
http://unimore.academia.edu/CeciliaRobustelli