Dopo oltre 26 ore di negoziati i 27 paesi dell’Unione hanno trovato venerdì pomeriggio un sofferto accordo sul nuovo bilancio comunitario 2014-2020. Molto è stato scritto sul risultato finale. I paesi hanno affrontato le trattative guardando più ai costi immediati che alle opportunità future. In un momento di difficoltà economica e di ristrettezza finanziaria, il bilancio europeo poteva compensare l’indispensabile austerità a livello nazionale, diventare un volano economico e un moltiplicatore di iniziative virtuose.
Gli stati membri hanno preferito ridurre la taglia del bilancio, limitandolo soprattutto agli affari correnti, e considerare i contributi nazionali più un costo che un investimento. L’Italia non è stata da meno. Il governo Monti ha salutato con enfasi l’accordo finale mettendo l’accento sul fatto che il paese, contributore netto, sarebbe riuscito a ridurre il saldo negativo, vale a dire la differenza tra quello che dà all’Unione e quello che riceve dall’Unione. Sappiamo perché il premier Mario Monti ha optato per questa linea. In piena campagna elettorale non voleva che l’intesa europea potesse essere criticata dai suoi avversari politici. Peraltro, altri (tutti i) paesi si sono comportati nello stesso modo, avendo come bussola il proprio saldo netto. Difficile avere una posizione più costruttiva e idealista degli altri partner. La stessa Danimarca ha ottenuto uno sconto, andando a ingrossare un gruppo di paese che già godono di questa discutibile particolarità. Visto in questa ottica, la diplomazia italiana ha ottenuto un risultato egregio. Eppure, l’atteggiamento italiano mi sembra discutibile, almeno per due motivi. Prima di tutto, perché offre del dare e avere comunitario una visione riduttiva. Il contributo nazionale al bilancio comunitario non è un costo, ma un investimento. L’Europa non ha forse permesso in questi decenni a migliaia di giovani italiani di studiare all’estero? Di dotare il paese di nuove infrastrutture? Di permettere con la propria politica commerciale a centinaia di piccole e medie imprese del Nord e del Sud di vendere anche sui mercati mondiali? Limitare lo sguardo all’ammontare del saldo negativo è un po’ come il negoziante che tiene pulito il proprio negozio, ma non spazza la neve sul marciapiede. Helmut Schmidt ha detto un giorno che “gli investimenti di oggi sono i profitti di domani”. Vale per un individuo, una famiglia, una impresa, un paese. Nessuna spesa è veramente a fondo perduto, né per una persona né per una istituzione. Dipende dal modo in cui viene decisa, interpretata e sfruttata. Troppo spesso l’Italia, anche al di fuori dell’ambito europeo, sembra dimenticarselo. Vengo così al secondo aspetto controverso dell’atteggiamento italiano.
L’Europa ha arricchito il paese e cambiato le sue prospettive. Non è banale, né da un punto di vista economico, né da un punto di vista politico. Chi paga più di quanto riceva siede al tavolo dell’Unione con un peso, un ruolo, una influenza maggiore del paese che invece dipende dai fondi comunitari. Diceva Talleyrand: “Le meilleur moyen de renverser un gouvernement, c’est d’en faire partie” (Il modo migliore di far cadere un governo è di farne parte). Lo stesso vale in Europa, senza naturalmente pensare di volerla fare cadere, ma piuttosto di influenzarla. Le autorità italiane hanno distribuito durante il vertice qui a Bruxelles una tabella da cui emerge che il saldo negativo italiano nel bilancio comunitario scende da 4,5 miliardi annui nel 2007-2011 a 3,8 miliardi nel 2014-2020. L’obiettivo era di sottolineare il successo italiano. La stessa tabella mostra che il saldo negativo tedesco aumenta nello stesso periodo da 8,4 miliardi a 10,6 miliardi di euro. Certo, l’andamento dei saldi è anche funzione dell’evoluzione della prosperità nazionale – quella italiana è scesa, quella tedesca è salita – ma è significativo che il cancelliere Angela Merkel non si sia lamentato ieri di questa situazione. Poco importa se probabilmente anche la Germania è riuscita nel suo intento a limitare l’esborso nazionale. La signora Merkel sa che il contributo tedesco – purché non sia esagerato e il paese non diventi il Zahlmeister, l’ufficiale pagatore dell’Europa – è un investimento politico più che un costo economico. Sa che questa situazione rafforza la sua posizione nel consesso dei 27. L’Italia non sembra capirlo. La diplomazia italiana potrebbe ribattere che per un paese oberato dai debiti una riduzione del contributo italiano all’Europa è un tassello in più nel risanamento dei conti pubblici. Non vorrei però che sia più facile agire sull’assegno italiano all’Unione piuttosto che sui sussidi alle lobbies in patria. Una piccola annotazione proprio su questa tabella distribuita venerdì dal governo italiano. Il saldo negativo di un paese nel sistema comunitario è funzione di due variabili: i suoi contributi al sistema comunitario e la sua abilità ad assorbire fondi europei. Quanto più un paese contribuente netto riesce a rimpatriare denaro europeo, tanto più il suo saldo negativo sarà basso. In queste settimane il governo ha spiegato che nel 2011 è stato il contribuente netto più generoso, dimenticando di dire che questo risultato è anche stato il riflesso di una inabilità ad utilizzare fondi europei a sua disposizione.
Beda Romano
(Nella foto, la foto di gruppo dei 27 riuniti il 7 e l’8 febbraio 2013 a Bruxelles)
NB: Dal fronte di Bruxelles (ex GermaniE) è anche su Facebook
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