Vorrei spiegare qui la posizione di Eunews sulla questione dell’uso della lingua italiana all’Istituto di cultura italiano in Belgio, serenamente.
La lingua, e su questo è facile convenire, è forse l’espressione più alta, certamente più diffusa, di una cultura. E’ quella meglio in gradi di descrivere ogni sfumatura di un’idea, dall’intensità di un colore alla delicatezza di un profumo. Come anche concetti più complessi. E’ del tutto evidente, ad esempio, che un termine comune come “famiglia” in italiano (perché è di questo che stiamo parlando) ha un significato, una significanza ed ovviamente un significante completamente diversi. Quando lo si traduce in inglese (o in un’altra lingua) per descrivere un fenomeno italiano si hanno due strade:
- aver prima tenuto un seminario sul significato (ecc.) della parola
- svolgere nella sede in cui lo si usa un corso sulla significanza (che renderà terribilmente lungo il seminario).
Dunque parlare di Italia in una lingua diversa dall’italiano comporta o una grande approssimazione o una grande necessità di approfondimento su ogni concetto che viene introdotto e che non sia universalmente interpretato in maniera per lo meno molto simile tipo “Quadrato”, termine geometrico che secoli di riflessione hanno portato ad essere un concetto abbastanza riconosciuto anche se uno dice “Square” o “Carré”, Sempre che sia chiaro che parliamo di un sostantivo, perché se lo usiamo come aggettivo già non è detto che un tipo che in italiano è “quadrato” in inglese sia descrivibile con “square”.
Un Istituto di cultura deve promuovere la conoscenza della cultura di un Paese e dunque, prioritariamente della sua lingua. E’ appena ovvio (doveroso, obbligatorio, minimale, l’ABC, ecc.) che si organizzino dei corsi di lingua, sarebbe come se l’A.C. Milan o lo Juventus F.C. non giocassero al calcio ma organizzassero seminari sui migliori tessuti per le magliette da calcio. Ciò che qualifica un Istituto non è la parte “obbligatoria” del programma, ma quella facoltativa, quella lasciata alla creatività del suo staff. Certamente l’attuale gestione dell’IIC è particolarmente attiva, dopo anni direi di “incuria” causata da varie ragioni, ora l’attività è decisamente ripartita, si organizzano eventi con pubblico trabordante e ospiti di indubbio rilievo, si tenta di rendere i locali più accoglienti, ci sono scivoli per i bambini, piadine in occasione degli eventi, e il tutto con pochissimi soldi. E’ questo è un successo il cui merito va certamente a Federiga Bindi, la direttrice. Si è fallito sulla presenza di uno stand italiano alla Fiera del Libro di Bruxelles, ma qui le colpe, gravissime, sono distribuite.
La questione che poniamo è che, però, non c’è vero rispetto per la lingua italiana. Come non c’è vero rispetto verso il paese che ospita l’Istituto, nel quale le lingue ufficiali sono tre, nessuna delle quali è parlata in eventi organizzati dall’Istituto, escludendo così i cittadini belgi, secondi fruitori, in base alla missione indicata dal ministero degli Esteri, per l’IIC dopo gli italiani. Dunque sbaglia, semplicemente, Bindi quando si dice “sconfitta” perché ai suoi dibattiti vanno solo (o in grandissima parte) italiani e auspica “una vittoria” quando non ci saranno più italiani in sala ma stranieri (e neanche cita i belgi). Semplicemente così viola il suo mandato.
Parlare italiano, e questo dicevo al termine di un dibattito al quale Bindi mi ha cortesemente invitato qualche settimana fa, vuol dire valorizzare il proprio paese, la propria cultura, affermare una assertività culturale, politica, storica. Se non abbiamo la forza di farlo neanche in casa nostra vuol dire che, allora, è vero, abbiamo perso, e la nostra lingua e la nostra cultura non meritano un futuro.