Dalle pagine del Corriere, Roberto Esposito e Ernesto Galli della Loggia riflettono sull’indebolimento del nostro senso identitario, sullo smarrimento di cui sono preda gli italiani nel turbine della globalizzazione e, per rinsaldare la nostra coscienza nazionale, propongono di istituire nuovamente in Italia un Ministero della cultura. La questione non è banale e non va liquidata con leggerezza. È da quando nel 1944 fu abolito il MinCulPop che in Italia non esiste un Ministero della cultura. In sua vece, ma con altri intendimenti, opera il Ministero per i beni culturali. Esposito e Galli della Loggia sostengono che un Ministero della cultura ci aiuterebbe a essere più consapevoli della nostra tradizione culturale per apprezzarla, riconoscerci in essa, trovarvi un legame di appartenenza e sentire il bisogno di difenderla.
Tutto questo è profondamente vero. Ma resta da chiedersi quale sia oggi la cultura italiana di riferimento da insegnare alle nuove generazioni. E questa domanda vale non solo per noi ma anche per tutte le altre culture nazionali dei grandi paesi europei. In parole semplici, possiamo concepire che per i figli dell’immigrazione, per i tanti nuovi italiani nati nel nostro paese da genitori stranieri Garibaldi abbia un significato? Che appartenenza possono suscitare per queste persone i nostri antichi miti nazionali? In altri paesi europei, il fenomeno di ibridazione della cultura è più visibile che da noi e forse servirà farvi riferimento. In Gran Bretagna esiste oggi una nuova generazione di intellettuali che esprimono una cultura mista, frutto dell’incontro fra la tradizione britannica e l’immigrazione dove i riferimenti culturali si mescolano in una nuova forma di appartenenza. Zadie Smith e Salman Rushdie ne sono i migliori esempi: al tempo stesso negazione e affermazione delle loro rispettive culture di origine, hanno trovato sintesi non senza controversia nella loro nuova dimensione inglese. Ovunque in Europa si sta sviluppando una cultura mista, a cavallo fra nazione e immigrazione, e nell’immigrazione stessa mai univoca bensì figlia della mescolanza che rielabora anche i contenuti delle rispettive culture di provenienza. Al punto che ad esempio in Francia si parla ormai di islam francese, opposto a quello tradizionale del mondo arabo e in Germania esiste ormai una Turchia tedesca. Si può dunque ancora parlare di culture nazionali oggi in Europa nel senso classico del termine? Io credo sempre meno. In una situazione così liquida, quale può essere dunque il ruolo di un Ministero della cultura? Io credo che un’istituzione simile potrà avere una sua legittimità solo se terrà conto dei nuovi parametri che caratterizzano il tessuto sociale dei nostri paesi. L’identità di un italiano non potrà più costruirsi sui riferimenti del passato ma dovrà aprire ponti verso le culture della nostra immigrazione e ancora di più verso le culture europee che gli sono vicine. Aprire ponti non significa lasciarsi passivamente contaminare ma al contrario portare noi il nostro spirito, per il tramite dell’immigrazione, fino alla radice da cui proviene e ingaggiare una reciproca contraddizione. Non si è più cinesi quando si nasce da genitori cinesi in Italia: inevitabilmente si vede la Cina con una certa romanità nel cuore e questa dualità insegna qualcosa anche a noi.
A livello europeo, è necessario che ogni italiano, come ogni altro cittadino europeo, sia consapevole che la sua storia nazionale è frutto di un mito, una tradizione inventata che ha avuto sì il suo valore e, pur con tutte le sue contraddizioni, ha svolto un ruolo ma che ora va superata. Superarla non significa negarla – qui non si tratta di rivoluzione culturale – ma semplicemente considerarla nel suo giusto merito di cosa passata. Romolo e Remo ci sono serviti ma non ci crediamo più. Mazzini è stato un grande idealista, sicuramente il padre della nostra repubblica, ma era anche un invasato. Uno che gira ogni santo giorno con una fascia nera al braccio perché è in lutto per l’Italia non lo inviteremmo a cena, no?
Quello che serve oggi è innanzitutto un curriculum comune di insegnamento della storia dove le nostre rispettive epopee nazionali vengano viste nel giusto contesto e ogni eroe rimesso al suo posto. Avremmo bisogno anche noi di sbullonare monumenti. Basta provare a fare cambio con i nostri vicini per vedere se hanno ancora un senso. Per noi Guglielmo Oberdan è un patriota, per gli austriaci è un regicida. E poi si chiamava Oberdank. È anche per questo che i nostri vecchi patriottismi non possono funzionare con i nuovi europei figli dell’immigrazione. A loro suonano tutte favole astruse. Come si può ancora oggi celebrare la memoria della Prima guerra mondiale senza dire che non fu una guerra di liberazione nazionale, non fu la primavera dei popoli ma il suicidio dell’Europa? Quando ci decideremo a dirlo alto e forte che i milioni di morti di Caporetto, di Ypres e di Tannenberg non sono eroi ma solo vittime? Al posto dei tanti monumenti ai caduti delle nostre piazze oggi dovremmo erigere monumenti ai disertori. Se non ripristiniamo la verità su questi fatti storici, sarà impossibile costruirne una visione condivisa.
Io credo che oggi non abbiamo più bisogno di miti e che il nostro modello identitario sarà più credibile e sarà più facile aderirvi se si baserà invece su dei principi. L’identità di un individuo ha una parte verticale che gli viene dai suoi genitori come la lingua o l’etnia e una parte orizzontale che gli viene da quel che gli sta attorno, come la sessualità, la percezione di sé, i valori morali, lo sviluppo personale. Su questa parte orizzontale possiamo agire mettendo in evidenza le vene sotterranee che hanno sempre collegato le culture europee, mostrando la sintesi più della differenza, l’albero prima del ramo. Dobbiamo strappare le nostre culture dall’asfittica stretta degli Stati nazionali e lasciare che si mescolino. Nessuna morirà se avrà qualcosa da dire. Stonehenge non è inglese: è in Inghilterra. Pompei non italiana: è in Italia. La cultura che fa la nostra tradizione è un patrimonio che appartiene a tutti gli europei e tutta l’Europa deve partecipare alla sua conservazione.
A ragione Esposito e Galli della Loggia mettono in guardia contro “il supino convergere di Stati, popoli e nazioni verso una sterile indeterminatezza”. Ma l’identità europea non è indeterminata, almeno quanto non lo è quella italiana, che si è compiuta nella sintesi di tante diverse appartenenze regionali, senza mai negarle né appiattirle, anzi conservandole. La nostra molteplicità, che abbiamo sempre visto come una debolezza, ridiventa invece una forza nella prospettiva di un’Europa unita. Quegli Stati nazionali che hanno fatto il deserto delle loro diversità regionali, come la Francia, oggi sentono il bisogno di recuperarle e vanno fino a ricostruire lingue perdute perché scoprono che la loro identità è fatta anche di quelle radici che sconsideratamente hanno tagliato. Noi, ultimi della classe in monolitismo, oggi abbiamo l’occasione di prosperare in un ritrovato cosmopolitismo, che è del resto la dimensione cui siamo sempre appartenuti, perché l’Italia è il prodotto di tante polis, perché da noi ogni città è stata capitale di uno stato e in un momento della sua storia ha pensato il mondo. Ben venga dunque un nuovo Ministero della cultura italiano che ci incoraggi ad essere consapevoli della nostra storia e della nostra tradizione culturale. Ma a condizione che lo affianchi un Ministero della cultura europeo che coltivi la nuova identità della mescolanza. Non si propugna qui un multiculturalismo accozzaglia di mutilazioni etniche, né l’invenzione di una mitologia europea al posto di quella nazionale, ma la valorizzazione di una vera e specifica cultura europea che non abbia paura di confrontarsi con il mondo e di condizionarlo con la sua visione.
Diego Marani