“La mia missione è promuovere la nostra cultura presso gli stranieri, non siamo il dopolavoro degli italiani, e il giorno in cui in questa sala non ci saranno italiani per me sarà una vittoria”. Ci sono parole che hanno bisogno del marmo per esprimere tutto quello che hanno da dire e queste pronunciate da Federiga Bindi, Direttrice dell’Istituto italiano di cultura di Bruxelles (nella foto, tratta dal suo account twitter, con il vice presidente Usa Joe Biden), di certo un giorno saranno scolpite sul frontespizio del suo mausoleo. La Direttrice è stata appunto lapidaria nel liquidare l’obiezione di chi lamentava che durante la presentazione del film “Girlfriend in a coma” all’Istituto italiano di cultura si parlasse in inglese fra italiani. L’episodio, in tutto il suo squallore, richiama però un’antica questione. Gli istituti di cultura all’estero hanno effettivamente la missione di promuovere la nostra cultura e non di intrattenere l’emigrazione italiana in cerca di patrie distrazioni. Missione comunque fallita, visto che la stragrande maggioranza del pubblico alla presentazione di “Girlfriend in a coma” era italiano e questa è la prova che l’Istituto non attira pubblico straniero. Ma poi come si può scindere la lingua dalla cultura? Come si può pensare di promuovere l’Italia senza la sua lingua? Uno straniero che viene al nostro Istituto di cultura è anche questo che cerca, l’opportunità di sentire e di parlare l’italiano che per suo interesse coltiva. Quale italiano appassionato di cultura inglese andrebbe a vedere un film inglese al British Council di Roma per poi sentirne discutere in italiano?
La difesa della lingua ci induce spesso in contraddizioni perché la concepiamo erroneamente come una battaglia, fatta di divieti di parlarne altre a favore della nostra. Un’autentica difesa della lingua invece si situa altrove e non ha nulla a che fare con le imposizioni, in fin dei conti neppure con la lingua. Ogni lingua è forte quando è l’espressione di una cultura forte e quindi induce gli altri ad impararla per avervi accesso. L’Italia ha una gigantesca cultura e se solo avesse un briciolo di ambizione, potrebbe trarne immensi vantaggi di influenza. Ma servirebbe coerenza, visione, investimenti, gioco di squadra e una strategia di cui gli Istituti di cultura sarebbero solo uno degli attori. Tutto questo non esiste, non è mai esistito e viene da credere che non esisterà mai.
Ma in più, come nella serata all’Istituto, se noi stessi italiani, anche fra italiani, sentiamo il bisogno di parlare inglese, vuol dire che siamo i primi a sentire la nostra lingua debole e inadeguata. E questo è senz’altro un fatto significativo del nostro tempo, della percezione perdente che abbiamo di noi, della nostra fragile appartenenza, in definitiva della decadenza del nostro paese, incapace di coltivare e conservare l’eredità del passato e ancor più inetto a costruirsi un futuro. Ma tornando all’Istituto e ai suoi frequentatori, gran parte degli italiani all’estero sono italiani disgustati dall’Italia, in un modo o nell’altro fuggiti da un paese diventato troppo angusto. Italiani, ma cosmopoliti, forse i più illuminati, di sicuro i più smaliziati, quelli a cui ogni patria va stretta. Ma allora per quale ragione l’italiano di Bruxelles, cittadino del mondo, dovrebbe frequentare l’istituto di Federiga Bindi quando ha tanta scelta di ottima cultura attorno a sé? E non la cultura di recupero o le rare briciole di qualità che arrivano all’istituto, bensì la grande offerta della cultura francofona o neerlandofona e perfino di quella di altri paesi che a Bruxelles investono in visibilità. Per non parlare di tutte le altre grandi capitali che ci stanno accanto. E allora di cosa abbiamo bisogno? Almeno per lealtà nei confronti del nostro vecchio paese, smettiamola di importunare la Direttrice Federiga Bindi con la nostra presenza, anzi diamole una mano nella sua delicata missione badando di stare bene alla larga dall’Istituto italiano di cultura.
Diego Marani