Una “lettera al direttore” ricevuta oggi
Il dibattito sul bilancio UE e su questa ennesima riforma che si delinea mi spinge a una riflessione sul percorso delle istituzioni europee nei trent’anni che le conosco. Oggi se ne critica l’efficienza e la capacità amministrativa come si critica allo stesso modo ogni altra amministrazione pubblica. C’è un disagio nei confronti di quanto è pubblico ed esercita un’autorità che proviene da un’investitura, perché c’è un disagio nei confronti dell’autorità in generale. L’autorità intesa come Stato si è rivelata incapace di proteggerci dalla crisi, di arginare il crollo delle banche, di salvare il lavoro. La gente ora crede solo nella rappresentanza diretta, vuole vedere in faccia e in tasca chi elegge. La risposta dell’autorità a questa graduale caduta di prestigio è stata quella di offrire trasparenza in cambio di fiducia. Si è creduto che la trasparenza sul suo funzionamento, sulle nomine, sugli stipendi, sulle carriere, sull’operato in generale di un’istituzione potesse sopperire alla mancanza di fiducia di cui soffre. Non è così. Ogni società, come ogni individuo, ha bisogno di un’autorità e di deporre in essa la sua fiducia. E’ sull’autorità e sul suo rispetto che si fonda il sistema politico del contratto sociale. La trasparenza non sostituisce la fiducia. La trasparenza alla fine è trasparente, cioè non contiene nulla.
Ma oltre al generale problema di crisi dell’autorità che colpisce tutti i nostri paesi, le istituzioni europee soffrono anche del fatto che non sono figlie di nessuno. Non hanno una statalità alle spalle, un establishment, come si direbbe, un agglomerato di poteri forti che ha interesse diretto nella loro esistenza. Non sono l’espressione di una società. Hanno potuto a lungo prosperare sulla spinta dell’idealità e sulle nobile credenziali del progetto europeo finché non faceva male a nessuno ed erano solo belle parole. Ma quando si è trattato di erodere i poteri nazionali, questa spinta si è esaurita e le istituzioni europee hanno cominciato a dare fastidio. Oggi molti governi e molta opinione pubblica vorrebbero vedere le istituzioni europee ridotte a agenzie tecniche, incaricate di gestire fondi, spartire risorse, fornire aiuti d’emergenza o organizzare riunioni e nulla più. E’ comprensibile che i governi vedano un pericolo nel potenziamento dell’Unione europea. E’ invece triste che l’opinione pubblica non si renda conto di dove sta il suo interesse. Contrariamente a quello che sta accadendo qui e in ogni nostro paese, è proprio di questo recupero di autorità e di potere pubblico che abbiamo bisogno per rifondare l’Europa. Al tempo dell’Europa a 12 queste istituzioni erano molto meno efficienti di oggi e sicuramente il loro ammodernamento in questi decenni è stato un progresso. Ma c’era qualcosa allora di prezioso e che è andato perduto: la lealtà istituzionale, lo spirito di appartenenza. Oggi i suoi detrattori lo chiamano corporativismo e lo considerano il più grave dei peccati contro l’efficienza. Invece era uno dei collanti della nostra società, fondata sul bene pubblico e non sull’interesse privato. Farò un piccolo esempio di un aspetto in cui si concretizzava questo spirito nelle nostre istituzioni. Erano allora aperti a tutti i funzionari corsi di lingue comunitarie, liberamente accessibili in un orario che in parte rientrava nell’orario di lavoro. Seguire un corso di lingua era considerata un’ovvia formazione professionale per traduttori e interpreti e quasi un dovere civico per gli altri funzionari. Anche dalle gerarchie, che pure dovevano privarsi del loro personale, ma che consideravano lo studio delle lingue uno strumento essenziale di integrazione del personale, di rinsaldamento dello spirito di corpo. I corsi di lingue divenivano anche occasioni di incontro per funzionari che non si frequentavano per lavoro, instauravano da sé quei contatti fra servizi che oggi siamo costretti a cercare di costruire artificialmente con riunioni e procedure amministrative, diffondevano la conoscenza reciproca della lingua ma anche della cultura dei diversi paesi. Ognuno parlava un po’ di qualche altra lingua, esisteva un multilinguismo interno che era anche diversità culturale, scambio, comprensione. Contro ogni principio di efficienza, una parte dell’orario di lavoro era di fatto dedicata a coltivare questa cultura istituzionale. Ma in realtà in quel modo si perseguiva un altro tipo di efficienza, che era quella del legame umano, dell’intesa, del sentimento di lavorare per qualcosa che stavamo inventando lì per lì e prima non esisteva. Oggi tutto questo non esiste più. Per un verso è inevitabile, viste le dimensioni raggiunte dalle istituzioni e la loro frammentazione. Per un altro i fanatici dell’efficientismo moderno troverebbero inaccettabile spendere soldi e tempo in corsi di lingua. Per loro ogni euro vale un euro. Per loro in ogni mestiere esiste solo la funzione, non il contesto. E’ così che arrivano a pretendere l’esternalizzazione dell’amministrazione della Commissione. Con la dispersione della cultura istituzionale europea è invece andato perso un tesoro che non si può calcolare in termini di efficienza, un patrimonio di affiatamento e intesa sul lavoro che facilitava i contatti e che in più era contagioso, si diffondeva nella città e noi lo portavamo in giro ovunque. Era quel che oggi nessuno più vuole: lo spirito europeo, quello che la mentalità dell’efficientismo fine a se stesso si è accanita a estinguere con puntiglio come se fosse un pericoloso incendio. E’ vero, era un incendio. Poteva propagarsi al resto della società, poteva strappare la costruzione europea ai governi che di fatto non la volevano e ancora non la vogliono per darla alla società civile che invece ne ha tutto l’interesse. Poteva suscitare entusiasmo ma l’entusiasmo fa paura a chi ha un potere da conservare, perché l’entusiasmo porta alle rivoluzioni. Così i sabotatori della costruzione europea hanno inventato l’idea del complotto dei tecnocrati contro i legittimi parlamenti, il presunto strapotere di Bruxelles, dove in realtà sono loro che comandano, e tutte le altre fandonie che noi conosciamo bene ma di cui l’opinione pubblica è tenuta accuratamente all’oscuro. Oggi il trattato di Lisbona contiene tutte le garanzie perché il cittadino possa intervenire nel processo decisionale europeo, ma nella società europea manca la cosa più importante: una cultura istituzionale europea, quel primo nucleo creato in laboratorio da funzionari pubblici che condividevano le loro lingue e le loro culture istituzionali, che imparavano a capire le loro diverse mentalità, che forse perdevano tempo, sì, ma costruivano anche quel senso di appartenenza, quel civismo, quella spinta ideale e quella fiducia nell’autorità che nessun bilancio potrà mai pagare.
Diego Marani