Si allarga il fronte europeo dei “no” alle quote rose nelle società pubbliche. La settimana scorsa nove paesi, guidati dalla Gran Bretagna, avevano scritto alla commissaria europea Viviane Reding, e al presidente della Commissione, José Manuel Barroso, per annunciare la loro opposizione al progetto dell’esecutivo di introdurre un obbligo del 40 percento di rappresentanza minima femminile nei consiglio di amministrazione delle società pubbliche (ora la media è del 13,7% con solo il 3% tra i presidenti). Adesso anche la Danimarca ha inviato una lettera a Reding per palesare la sua opposizione. “Il Governo danese trova che le misure dovrebbero essere flessibili, rispettare il diritto di autogestione delle aziende e dovrebbero evitare inutili oneri amministrativi” recita la missiva firmata da due uomini, Manu Sareen e Ole Sohn, rispettivamente ministri delle Pari opportunità e del Tesoro (anche se bisogna ricordare che il Premier danese è una donna, Helle Thorning-Schmidt). Oltre a Danimarca e Gran Bretagna ad appoggiare la levata di scudi contro le quote rosa ci sono: Bulgaria, Repubblica Ceca, Estonia, Ungheria, Lettonia, Lituania, Malta e anche la liberale Olanda. Come se no bastasse al fronte del “no” si possono inscrivere anche Germania e Svezia che pur non avendo sottoscritto la lettera hanno già espresso pubblicamente la loro opposizione all’idea.
Nonostante la determinazione della lussemburghese Reding il provvedimento non sembra avere grandi possibilità di veder la luce perché il blocco ha la forza sufficiente a porre il veto in seno al Consiglio europeo anche qualora il Parlamento dovesse dare il suo assenso. L’Emiciclo di Bruxelles ha già fatto capre di essere favorevole per bocca del presidente della Commissione per i Diritti delle donne e le pari opportunità, lo svedese Mihkael Gustaffson della Sinistra unitaria, e quando la Commissione affari economici e monetari ha rimandato l’audizione del candidato al board della Bce Yves Mersch perché vorrebbe che al suo posto fosse scelta una donna. Ma nella codecisione c’è bisogno del sì di entrambe le istituzioni.
Eppure, secondo uno studio di McKinsey, una nota società di consulenza, le aziende dove si pratica la parità di genere fatturano il 57% circa più delle altre. Su questo fronte per una volta è l’Italia a rappresentare un’avanguardia per l’Europa, come ha più volte sottolineato la Reding. Grazie alla recente legge “bipartisan”, promossa dalle deputate Lella Golfo (Pdl) e Alessia Mosca (Pd) e entrata in vigore lo scorso 12 agosto, nel nostro Paese le società pubbliche e quelle quotate in borsa devono avere nei cda e nei collegi sindacali almeno un 20 per cento di “genere meno rappresentato”, cioè donne. La quota a partire dal 2015 la quota passerà addirittura al 33%.