Lo scontro istituzionale tra il presidente della Romania Traian Basescu e il primo ministro Victor Ponta, non sembra destinato ad attenuarsi, nonostante l’esito del referendum del 29 luglio sancisca il reintegro del presidente sospeso dall’incarico.
Basescu ha vinto, non si sa se grazie all’astensionismo degli indifferenti, o al boicottaggio consapevole promosso dal PDL e sostenuto dal partito della minoranza ungherese UDMR.
Il dato per ora certo, ma non ufficiale, è che il 46% dei cittadini romeni aventi diritto al voto si è recato al voto e l’87% di loro si è espresso a favore della destituzione di Basescu.
Una percentuale di votanti non sufficiente per un referendum, la cui soglia di validità era stata previamente stabilita dalla Corte Costituzionale al 50% degli aventi diritto al voto +1.
Per favorire la destituzione di Basescu, Ponta si era servito di ogni mezzo istituzionale a sua disposizione, seguendo una procedura legalmente ineccepibile, salvo poi fare ricorso a decreti d’urgenza per la riforma delle regole relative al referendum, per la riduzione di poteri della Corte Costituzionale, senza contare la sostituzione dei presidenti di Camera e Senato e dell’Ombudsman in forze al PDL. Tutte misure che hanno indotto molti analisti a temere il colpo di stato.
Lo scenario che si apre all’indomani del referendum è quello di una convivenza forzata tra Victor Ponta e un Basescu in carica fino al 2014 seppur con un consenso popolare in declino. Basescu continuerà a detenere gli incarichi di salvaguardia della Costituzione, a gestire gli affari esteri e tutelare il corretto funzionamento dell’autorità pubblica.
In questo scontro istituzionale non ci sono vinti e vincitori, bensì una sola vittima, il popolo rumeno che da oltre un ventennio continua a subire abusi e atti di corruzione, legislazioni concepite ad uso e consumo dei singoli in un paese la cui impalcatura istituzionale è ancora fragile e che non si è mai realmente emancipato dalla transizione post comunista.
Dispiace riconoscere che i Romeni non possano trovare un vero sostegno neanche nei vincoli rassicuranti dell’Unione Europea, più preoccupata che i conti con il FMI siano a posto, piuttosto che nel Paese si goda di un reale benessere economico e di un sistema democratico sostanziale.
La realtà è che agli occhi dei Rumeni l’Unione europea ha disatteso le aspettative: i tagli del 25% agli stipendi dei funzionari pubblici e alle pensioni e le misure di austerità richieste da FMI e UE, un prodotto interno lordo procapite di 5.800 euro e i tagli ai servizi sociali non possono che accrescere la rabbia e favorire correnti di euroscetticismo.
Alcuni lucidi analisti sottolineano che la crisi istituzionale rumena non è un caso isolato, poiché tutta l’Europa orientale è destabilizzata dall’insicurezza economica e sociale. Casi paralleli sono quelli della deriva nazionalista dell’Ungheria di Orban e del crescente sostegno politico alla forza di estrema destra di Alba Dorata in Grecia.
Valentina Strammiello (Ricercatrice Fondazione Cipi)