Con un voto che il relatore David Martin ha definito, non senza un certo compiacimento, «la più grande sconfitta subita dalla Commissione nella storia», il Parlamento europeo ha rigettato ieri con 478 voti contro, 39 a favore e 165 astenuti l’ormai famigerato ACTA, l’accordo commerciale anti-contraffazione. Il parere negativo dei deputati era praticamente scontato visto che il provvedimento è da anni al centro delle critiche dell’opinione pubblica europea nonché motivo di scontro fortissimo tra le istituzioni comunitarie.
Il testo è stato motivo di controversie già a partire dal suo titolo in quanto non riguarda solo la contraffazione delle merci ma entra più in generale nella questione del copyright andando a toccare gli ambiti più disparati: dall’audiovisivo ai brevetti farmaceutici. Il pericolo rilevato dai deputati, nonché da diverse associazioni che da subito si sono mobilitate per bloccarlo, era costituito soprattutto da due punti: il fatto che il testo non faceva le dovute distinzioni tra beni fisici e immateriali finendo per mettere sullo stesso piano merci contraffatte e il materiale audiovisivo che viene comunemente scambiato su internet; e il fatto che l’accordo finiva per mettere sullo stesso piano la commercializzazione di un prodotto con la sua condivisione senza scopo di lucro. Insomma si rischiava di criminalizzare la pratica dello scambio di musica e film su piattaforme peer to peer.
In più si ritenevano responsabili anche i fornitori di servizi e programmi ai quali veniva chiesto di trasformarsi in controllori del copyright (con conseguenze fortissime nei confronti della privacy) autorizzati anche dal fatto che l’accordo prevedeva all’articolo 27 che «le autorità competenti abbiano la facoltà di ordinare a un fornitore di servizi on-line di comunicare rapidamente a un titolare di diritti (d’autore, ndr) informazioni sufficienti per identificare un utente il cui conto sarebbe stato utilizzato per una presunta violazione», insomma una sorta di “polizia informatica” privata. Non a caso anche le aziende di provider internet si sono espresse negativamente sull’accordo e ben cinque Commissioni parlamentari, tra cui quella sul Commercio internazionale, avevano chiesto di rigettarlo.
In origine l’accordo era stato negoziato tra Ue, Stati Uniti, Australia, Canada, Giappone, Messico, Marocco, Nuova Zelanda, Singapore, Corea del Sud e Svizzera con trattative che, partite nel 2007, sono state tenute segrete per ben tre anni fino a quando il Parlamento europeo ha chiesto con forza che il testo venisse reso pubblico e che venissero eliminati i punti che, secondo le indiscrezioni che erano trapelate, erano ritenuti lesivi dei diritti dei cittadini: la disconnessione forzata da internet degli utenti sospettati di violazione del copyright dopo tre avvertimenti; il fatto che i provider dovessero fungere da organi di sorveglianza, e addirittura l’ipotesi di controllare alle frontiere i contenuti di computer, cellulari e lettori mp3. Il testo finale è stato poi siglato a Tokyo il 26 gennaio 2012 tra 22 dei 27 Stati membri dell’Ue (Italia inclusa) ma doveva essere ratificato dal Parlamento che invece con questo voto, come ha dichiarato Martin «ne ha decretato la morte e non solo in Europa». Ma la battaglia non è finita in quanto la Commissione, che difende strenuamente il testo, prevedendo una bocciatura del Parlamento aveva già portato l’accordo alla Corte di giustizia europea perché questa verificasse se «lede i diritti fondamentali dei cittadini europei inclusa la libertà di parola». E ora il commissario Ue al commercio, Karel De Gucht, ha affermato che attenderà il responso prima di decidere, di comune accordo con gli altri partner internazionali, come regolarsi. Ma David Martin è stato chiarissimo: « Anche se la Corte si esprimesse positivamente sul testo, la Commissione non può riproporci lo stesso documento. Ma lo respingeremmo ugualmente anche se ci venisse riproposto con delle modifiche».