Bruxelles – L’accordo c’è, ora bisogna però scriverlo, entro marzo. Il lavoro per il nuovo patto sulla governance dei bilanci europei dal quale la Gran Bretagna si è tenuta “sdegnosamente fuori”, come ha detto il premier Mario Monti, non è finito, la parola ora passa dai politici, (che comunque si incontreranno ogni mese, in questa fase di crisi) ai giuristi, che dovranno trovare come mettere nero su bianco l’intesa. Non sarà un lavoro semplice , ci vorrà molta abilità perché restano aperte molte partite importanti. Con l’attenzione al fatto che il valore di questo accordo non è tanto nelle sue previsioni legali, “in realtà non c’è molto di più di quanto già esista dopo le nuove regole imposte in questo ultimo anno”, dice un fonte che ha lavorato al dossier, “ma c’è, forte, l’idea di una integrazione economica”: oggi è l’unione di bilancio, domani si potrebbe procedere su quella fiscale o altro.
Però l’accordo va comunque scritto, e in primo luogo bisognerà avere particolare cura verso quei tre paesi, Svezia, Repubblica Ceca e Ungheria, i cui capi di governo hanno espresso quello che tutti considerano un “sì”, ma che in realtà è un impegno condizionato al giudizio dei rispettivi Parlamenti, “ora non abbiamo il mandato”, ha spiegato il leader svedese Frederik Reinfeldt. Quelle tre firme sono ancora sospese, e si tratta di paesi molto vicini alle posizioni della Gran Bretagna, che fino a venerdì mattina si dava per scontato fossero schierati con Londra. Il lavoro dovrà dunque tenere conto di queste sensibilità, per non perdere dei soci preziosi. C’è poi il problema dei referendum. Grazie, o per colpa, di David Cameron la questione della modifica dei Trattati europei al momento non è sul tavolo, è una cosa che si può fare solo in ventisette. Quindi la consultazione obbligatoria dei cittadini non è in questo caso automatica, si tratterà di un accordo intergovernativo e non di una modifica “costituzionale” dell’Unione europea. Però la questione referendum resta aperta, in particolare in Irlanda. Il ministro per gli Affari europei Lucinda Creighton ha posto subito il problema: “Le possibilità che si debba svolgere un referendum sono al 50%”, ha detto. Non si è sbilanciato in previsioni il suo premier Enda Kenny, ma ha sottolineato che “la questione del referendum dovrà essere considerata da molti paesi. L’Attorney General (il Procuratore generale, ndr) darà il suo parere al nostro governo”. Secondo il Taoiseach (questo il titolo del premier irlandese) nell’accordo “ci sono grandi questioni tecniche e di lavoro giuridico da affrontare, e l’Irlanda non sarà sola a farlo”.
“Non è che la presenza dell’Irlanda nell’accordo cambierebbe qualcosa – spiega un diplomatico a Bruxelles -. La questione è che un referendum su questa materia sarebbe una consultazione sul restare o meno nell’euro”. Lo stesso vale per ogni paese della moneta unica: rifiutare l’intesa vorrebbe dire uscire dal club, “e molti hanno il sospetto che questo sia il retro pensiero della Francia: lanciare una nuova unione monetaria più ristretta, con dentro le grandi economie che hanno più interessi in comune e liberarsi di qualche paese più piccolo ma che alle volte pone grossi problemi”, spiega la fonte diplomatica.
Nella definizione dell’operatività dell’accordo c’è la questione, sottolineato anche da Monti, del ruolo delle Istituzioni comunitarie. C’è già quella che non è che una provocazione britannica sull’uso delle strutture comunitarie per incontri a ventisei, ma che comunque è stata fatta: perché dovremmo anche noi partecipare ai costi come quello della luce elettrica? Però il problema esiste, se la Commissione sarà coinvolta, come lo è ad esempio la Corte di Giustizia, nella implementazione dell’accordo, che ruolo avranno i rappresentanti Britannici? Che posizione ha il giudice britannico della Corte nel giudicare se la regola del pareggio di bilancio è stata correttamente recepita in Francia, o in Lussemburgo? La commissaria Britannica Catherine Ashton potrà votare nell’ambito di un patto del quale non fa parte?