Un discorso debole sul futuro della Gran Bretagna nell’Ue, pieno di paure sulla separazione
Il referendum solo dopo un tentativo di negoziato su nuove regole e nella prossima legislatura
La Gran Bretagna potrebbe tenere un referendum sull’adesione all’Unione europea, ma non ora, meglio fra quattro o cinque anni. Intanto proviamo a rinegoziare quello che non ci sta più bene. E’ stato un David Cameron incerto e prudente, come ci si attendeva, quello che stamane ha pronunciato il suo tanto atteso discorso sulla partecipazione del suo paese all’Unione europea. A dire il vero sembra che non abbia nessuna voglia di andarsene, e lo dice anche con chiarezza: “Per noi essere dentro è un vantaggio, contiamo di più a Washingron, a Dheli, o in altri posti, è un vantaggio per la nostra economia, per l’occupazione”. Però, dice anche, che “deve essere il popolo a decidere” e che se si farà un referendum, ci metterà “tutto il cuore e tutta l’anima”. Ma intanto lo rinvia alla prossima legislatura, “alla prima metà”, precisa, aggiungendo con tono drammatico che “sarà una scelta senza ritorno, un biglietto di sola andata tralasciare e stare dentro”. Non sono i toni di chi vuol lasciare.
E’ stato un discorso rivolto all’interno, agli euroscettici di Londra, nel tentativo di tenerli tranquilli, più che a Bruxelles, nel quale ha detto frasi inaccettabili dai partner come: “Il Mercato unico è la principale ragione per noi per stare nell’Unione”, come a sottolineare, nell’isola, che non intende compromettersi con i continentali su altre questioni. Ma le pressioni internazionali, il realismo internazionale si potrebbe dire, lo hanno convinto a non correre. Ha posto cinque punti sui quali vuol negoziare: Competitività, Flessibilità, Potere agli Stati, Maggior ruolo dei Parlamenti, lavoro a ventisette e non a diciassette. “Ma a Bruxelles non c’è il clima per questo negoziato”, dice Rosa Balfour, capo del programma di studi sulla politica estera dell’European Policy Centre. E quando questa questione viene posta ai conservatori britannici questi restano un poco sconcertati. Nirj Deva ha seguito il dibattito nel Parlamento eurpeo a Bruxelles, picchiando con la mano sul tavolo per mostrare approvazione a qualche passaggio di Cameron, e quando gli si chiede se secondo lui a Bruxelles ci aprirà al negoziato resta interdetto qualche istante, e poi dice che “noi lo facciamo anche per l’Europa… vorreste dire che non ci sono problemi di competitività? O che cì sufficiente flessibilità? O che stiamo ben affrontando la crisi?”.
A Londra non ci si è posti il problema se il negoziato potrà essere aperto o meno, ci si limiterà a dire in “no” che saranno possibili (e sono in verità tanti) e a rallentare ogni spinta all’integrazione, ma non ci si aspetta che sia aperto un tavolo sull’agenda britannica. Che è a dire il vero abbastanza generica e si occupa solo di economia. “Dobbiamo poter agire con maggiore velocità”, rivendica Cameron, la cui parola chiave è stata “flessibilità” e “benvenuta diversità”. “Ci sono differenze tra i paesi membri, e dunque ci vogliono regole comuni ma anche flessibili”, ha detto, ribadendo in realtà quello che già avviene per Londra, che è fuori da molte politiche comuni, come l’euro, o Schengen, o la carta dei Diritti. Il suo obiettivo è “completare il Mercato unico, e su questo – ammonisce con grande populismo – i funzionari europei devono lavorare dalla mattina alla sera tardi”.
Nulla di preciso,molto fumo insomma, “una nebbia pesante è scesa improvvisamente su Bruxelles”, commenta l’eurodeputato liberale britannico Andrew Duff, secondo il quale “il poveretto sembra in una grande confusione”…
Lorenzo Robustelli