Non esiste la “prova” che le quote rosa facciano funzionare meglio le aziende, ma esiste il ragionevole sospetto che sia così. Come esiste il sospetto che non tutte le donne sarebbero contente di entrare in un Cda solo grazie al loro genere. Sono alcune delle questioni che gli uffici di Viviane Reding hanno affrontato nell’elaborare la loroproposta sulle quote rosa.
Reding ha deciso di procedere dritta su questa strada, è convinta che le quote siano un bene, anche se il cammino si fa sempre più in salita. La discussione sul provvedimento, che intende inserire una soglia minima del 40% di rappresentanza minima femminile nei consiglio di amministrazione delle società pubbliche, doveva avvenire ieri n Commissione europea ma è stata rimandata a novembre. Fonti Ue hanno parlato di “problemi di base giuridica, sussidiarietà e procedura amministrative”. Reding ha fatto sapere: “Non mi arrendo”.
La questione dello “Gender balance” non è comunque una questione semplice. “Non in tutti i Paesi in cui sono state introdotte le quote rosa la cosa ha funzionato”, dichiara Gabriele Birnberg, principal Consultant della Matrix Insight Ltd, una società di consulenza inglese che ha fatto uno studio per la Commissione europea sull’impatto delle quote rosa nei board delle società. “Le quote possono portare ad un incremento di presenza femminile, come si vede dal caso della Norvegia- spiega la signora Birnberg -, dove si è registrato un incremento di 20 punti percentuali in 8 anni. Mentre in Spagna dove esistono simili quote, l’andamento e’ stato più lento (5 punti percentuali in 5 anni). Questo potrebbe essere dovuto dal fatto che nel primo caso vigono sanzioni per mancata applicazione della quota mentre in Spagna no”.
Nel suo rapporto la Matrix Insight Ltd ha utilizzato l’enorme mole di studi che sono stati fatti sul tema a livello europeo e ha intervistato esponenti di sindacati, istituzioni e delle principali aziende che stanno lavorando molto sull’equilibrio di genere. “Gli studi esistenti suggeriscono che esiste una correlazione tra la diversità di genere nel top management e la performance delle aziende, ma gli stessi studi non riescono a provare in modo inequivoco una relazione di causalità tra i due”, dice la ricercatrice. Quando ci sono visioni diverse in un organismo decisionale i tempi per raggiungere una conclusione si allungano “ma le probabilità che si raggiunga un risultato più giusto aumentano. Funziona così anche per l’equilibrio di genere”, dice Birnberg.
Ma allora perché nazioni come la Gran Bretagna e la stessa Danimarca (che ha un premier donna) sono contrarie alle quote rosa? Per la consulente la risposta è difficile da dare proprio per la complessità del tema: “Ci sono alcune donne che sono contrarie alle quote rosa per via dello stigma che contraddistingue questo sistema. I persistenti sbilanci di genere nel top management (e in altre aree di vita) dimostrano che rompere gli stereotipi e’ particolarmente difficile senza l’uso di azioni affermative e cioè con leggi e sotto la minaccia di sanzioni. D’altronde -dice la ricercatrice -, il successo raggiunto tramite le quote potrebbe non essere accettato facilmente come il frutto del merito ma bensi’ come il frutto di azioni affermative come leggi e sanzioni”.
Resta il fatto che, dati alla mano, quando le quote non vengono imposte con leggi e sotto la minaccia di sanzioni le cose hanno difficoltà a cambiare e comunque il cambiamento avviene molto lentamente. “La sfida è che le azioni affermative, come le quote, coinvolgono un sintomo ma non la causa del problema”, sostiene Birnberg, secondo la quale dobbiamo comunque essere ottimisti: “Non possiamo prevedere ancora cosa deciderà la Commissione tra un mese, ma il fatto che si stia creando un dibattito sull’argomento è già un buon segno. Quello che posso dire è che durante le nostre ricerche abbiamo percepito un clima favorevole al cambiamento tra gli esponenti intervistati. Forse i tempi sono maturi”.
Alfonso Bianchi