Negli Stati Uniti la crisi economica iniziata nel 2007 è stata la più grande caduta di produzione e reddito dal dopoguerra. Il Paese ha impiegato quattro anni dal quarto trimestre del 2007 al quarto trimestre del 2011 per tornare al picco precedente. E ora ha ripreso a crescere con tassi abbastanza elevati. Si prevede una crescita del 3% nel 2014. Il Dow Jones è salito del 30% nel 2013, raggiungendo, depurato dell’inflazione, il suo massimo storico, il record di tutti i tempi. La disoccupazione è scesa dal 12 al 7%.
Molti danno il merito a Obama e al governatore della Fed Ben Bernanke, che non si sono preoccupati di stare all’interno di un tetto, come il famoso vincolo europeo del 3%, ma hanno fatto salire il rapporto deficit/PIL al 12%, finanziando con esso un corposo programma di investimenti anti-recessione e allo stesso tempo, dal 2009, hanno immesso 3.200 miliardi di liquidità nell’economia. Un’altra conseguenza positiva della politica monetaria espansiva è stata quella di una svalutazione competitiva del dollaro che sta ridando competitività all’industria americana. Qualcuno potrebbe obiettare che non è tutto oro quel che luccica. Alcuni sostengono che, sebbene sia vero che l’economia è ripartita, negli USA si sono ricreate le condizioni precedenti alla crisi del 2007, con un valore di Borsa che potrebbe essere pericoloso e portare a una nuova crisi finanziaria. Un’altra critica è che l’aumento del reddito nazionale, tornato a valori superiori di quelli del 2007, sia stato accaparrato quasi interamente dai possessori di asset, l’1% degli americani che controlla la maggior parte della ricchezza, allargando la forbice delle diseguaglianze economiche in modo ancora più pericoloso che in passato. E nonostante la svalutazione del dollaro e la scoperta di nuove fonti di energia che renderanno presto gli USA esportatori netti di energia, la parte corrente della bilancia dei pagamenti americana produce ancora oggi il più grande deficit al mondo (circa 400 miliardi di dollari).
Il Regno Unito, nonostante un’aggressiva politica di quantitative easing, non è ancora tornato ai livelli del 2007, così come non vi sono tornati la Francia e il Giappone, ma vi torneranno presto. L’unico altro grande Paese occidentale, insieme agli Stati Uniti, che vi è tornato è la Germania, trainata dalle sue esportazioni. Al contrario degli Stati Uniti, la Germania non solo è tornata ai livelli precedenti tenendo il bilancio dello Stato sotto controllo, ma è il paese al mondo che ha il più alto surplus nella parte corrente della bilancia dei pagamenti, oltre 250 miliardi di dollari.
L’Italia, stretta tra Scilla e Cariddi, tra l’inflessibilità teutonica e l’assoluta necessità di rilanciare la propria domanda attraverso politiche espansive, si trova oggi in una situazione priva di precedenti in tutta la sua storia. Ha ragione il presidente di Confindustria Squinzi quando sostiene che questa crisi è peggio di una guerra.
In Italia, paese che ha uno dei debiti pubblici più alti del mondo, lo sgonfiamento della bolla finanziaria negli USA – cioè una sopravvalutazione degli asset (attività finanziarie come azioni, obbligazioni e titoli di vario altro genere) –, in pratica la riduzione del valore di uno stock finanziario, ha prodotto effetti devastanti sui nostri flussi annuali di reddito e di produzione, che di anno in anno sono diminuiti più che in qualunque altro paese occidentale sviluppato. Il reddito nazionale si è ridotto dal 2007 ad oggi di quasi il 10%. La produzione industriale di più di un quarto. Il debito pubblico è salito a livelli mai visti prima sia in rapporto al PIL (dal 103% del 2007 a oltre il 130%) sia in assoluto, senza nessun beneficio in termini di rilancio della domanda. I giovani senza lavoro, fra disoccupati e scoraggiati, superano il 40%, la disoccupazione generale sta arrivando al 13% e persino nelle previsioni ufficiali rimarrà a questi livelli pure nei prossimi anni. Anche se fosse vero che abbiamo raggiunto il bottom, cioè il fondo della crisi, come il nostro ministro del Tesoro, Fabrizio Saccomanni, cerca di raccontarci con un ottimismo che tutti sanno di maniera, la domanda vera è un’altra: quanti anni impiegherà l’Italia a raggiungere di nuovo i livelli pre-crisi che sia gli Stati Uniti che la Germania hanno già raggiunto da un paio di anni? Con una crescita tra lo zero e l’1%, che è quella che, a parità di politiche economiche e monetarie, ci si prospetta, ci potrebbero volere tra i dieci e i quindici anni. Rischiamo di impiegare vent’anni per riacciuffare i livelli di vita a cui eravamo arrivati. Ma si è mai vista una crisi congiunturale che dura vent’anni? Chiaramente si tratta di qualcosa di nuovo e inaspettato, e l’Italia, ancora tutta presa dai dibattiti su Berlusconi (come diceva il grande Ennio Flaiano, i fascisti si dividono in due categorie, i fascisti e gli antifascisti, così come oggi i berlusconiani si dividono in due categorie, i berlusconiani e gli antiberlusconiani), non è ancora riuscita a ben metabolizzare quello che le sta succedendo.
Al popolo italiano questa narrativa, e cioè che siamo il paese dell’Occidente più danneggiato dalla crisi finanziaria scoppiata in America nel 2007, non è ancora stata raccontata nel modo giusto, anche perché finora è mancato un politico coraggioso che la capisse e avesse abbastanza fegato per farlo. Se lo facesse Matteo Renzi e poi riuscisse con politiche giuste a tirarci fuori da questo pantano, sarebbe ricordato come un eroe per secoli.
Per uscire da questa situazione, oltre a fare riforme strutturali, necessarie sicuramente, che però nel breve periodo inciderebbero poco sulla crescita dell’economia, dobbiamo assolutamente trovare il modo di rilanciare i consumi e gli investimenti.
Le idee degli economisti sono spesso molto diverse tra di loro. Uno dei segreti da loro meglio difesi è il seguente: che non esiste una teoria economica condivisa. Non esistono principi certi su cui poter basare l’analisi di una certa situazione. L’economia non è la fisica, la chimica o la biologia, dove si può dare per abbastanza certo che ogni cellula funzioni sulla base delle informazioni per la sintesi proteica codificate nel suo DNA. Eppure, anche se l’economia non è la fisica o la chimica, almeno su un punto le idee di economisti di scuole diverse convergono: la depressione della domanda si cura sostenendo la domanda.
Ma come può sostenere la domanda il governo italiano (o quello spagnolo, portoghese, greco) se con l’avvento dell’euro e del Fiscal Compact non siamo più in grado di attivare le leve macroeconomiche nazionali? Bisogna mettere più soldi nelle tasche degli italiani e delle piccole e medie imprese che rappresentano la grande forza di questo paese. Ma come possiamo riuscirci? Il trattato di Maastricht, fatto in tempi che sembrano ormai lontanissimi, fu concepito secondo le mode economiche di allora mettendo al primo posto, come obiettivo di politica economica della Banca Centrale Europea, solo l’inflazione (il cosiddetto inflation targeting) e non la lotta alla disoccupazione, che era stato l’obiettivo primario di tutti i governi dell’Occidente a partire dalla fine della seconda guerra mondiale fino alla metà degli anni Settanta, obiettivo che rimane ancora prioritario per quasi tutte le banche centrali (vedi la Fed) meno la BCE.
Un’azione radicale di rilancio della domanda potrebbe essere fatta solo con un taglio radicale del cuneo fiscale di 30-40 miliardi. Almeno su questo punto tutti, a destra e a sinistra, sono d’accordo. In questo modo, potremmo mettere più soldi nelle tasche di chi lavora e ridurre il costo del lavoro per le imprese. Non dimentichiamo che quest’ultimo, nonostante la crisi, continua a crescere, principalmente a causa delle tasse. Secondo l’OCSE, il costo del lavoro è salito in Italia del 36.2% dal 2000, in Germania dell’11,4% e in Spagna del 25,2%.
Ma dove troviamo i soldi? Qualcuno potrebbe rispondere con un’altra domanda: ma qual è il problema? Oggi la moneta, non essendo più legata all’oro, fiat money, come viene chiamata in gergo dagli economisti, la possono creare i Governi e le Banche Centrali con un semplice click del computer. La moneta è come l’aria, infinita, un bene comune di tutti noi europei. Gli Stati non sono simili alle famiglie, come recita spesso l’Angela-analogia della Merkel. Le famiglie, prima di spenderla, la moneta la devono guadagnare o farsela dare in prestito. Gli Stati, no! Se la possono autocreare in casa.
Ma oggi l’Europa non può permettersi di fare politiche monetarie espansive, come fanno altri grandi Paesi dell’Occidente (la Troika keynesiana, Stati Uniti, Giappone e Gran Bretagna) perché sul nostro continente grava come un macigno la filosofia economica della Bundesbank, che vede la creazione di moneta dal nulla, cioè le politiche monetarie espansive per rilanciare la domanda, come opera del diavolo.
Come dice Martin Wolf sul «Financial Times» del 15 gennaio:
Dentro l’Eurozona, il potere è oggi concentrato nelle mani di paesi creditori come la Germania e un trio di non democraticamente elette burocrazie – la Commissione Europea, la BCE e il Fondo Monetario Internazionale. I popoli dei Paesi che sono più colpiti dalla crisi non hanno nessuna influenza su di loro e i politici che essi hanno eletto sono powerless, senza potere.Questo divorzio tra potere vero e responsabilità verso gli elettori nazionali colpisce al cuore ogni nozione di governance democratica. La crisi dell’Eurozona non è solo economica. E’ anche costituzionale.
Come se ne esce? Proviamo prima a fare una diagnosi. Perché l’Italia è stato il paese più colpito dalla crisi? Le risposte date e le analisi fatte sono state tante. Io le vorrei riassumere così. A causa del nostro debito pregresso, siamo costretti a sopportare interessi sul debito di 85 miliardi l’anno, il 5,5% del Pil, potendo per ora far poco per ridurre questo costo. Se il Governo italiano avesse gli stessi poteri di Shinzo Abe, il nuovo primo ministro giapponese, questo costo si potrebbe ridurre di quasi della metà o di due terzi e l’Italia avrebbe a disposizione risorse ingenti per ridurre il cuneo fiscale, e cioè la differenza tra il costo di un dipendente per un’impresa e il netto che il lavoratore riceve in busta paga. Ma, come se non bastasse, l’Italia, che ha una delle situazioni fiscali più sane al mondo – se gli interessi da pagare sul nostro debito pubblico fossero ridotti a un sano 2% del Pil, avremmo oggi un surplus di bilancio al lordo degli interessi dello 0,5% – è costretta ad adottare, durante la crisi economica più difficile della sua storia, anche se scalciando e resistendo e brontolando continuamente contro le teste di legno tedesche, una politica economica che si può solo definire demenziale, non una politica anticiclica ma prociclica. Per rispettare il vincolo del 3% di bilancio, dobbiamo produrre ogni anno un enorme surplus primario nel bilancio dello Stato (cioè al netto degli interessi) pari al 2,5% del Pil, per poter soddisfare la politica “stupida”, come l’ha definita Romano Prodi, del Fiscal Compact, e cioè avere un surplus primario enorme che sottrae anno dopo anno liquidità dalle tasche dei cittadini. E in teoria dovremmo presto cominciare a rispettare gli impegni presi con il Fiscal Compact, cioè una riduzione del debito del 3% l’anno che, alle condizioni attuali significherebbe un surplus primario dell’8-9% l’anno. Una follia!
Poiché il nostro Governo il potere di stampare moneta non lo ha più, ed è difficile (e neanche auspicabile) che si torni alla lira, l’esecutivo italiano dovrebbe spiegare agli italiani che bisogna vincere fuoricasa a Bruxelles e Francoforte se l’Italia vuole provare a uscire dalla palude, prima di essere risucchiata dalle sabbie mobili definitivamente. Inutile cercare di ridurre la spesa pubblica di un miliardo o due. Dobbiamo ridurre la nostra spesa facendo sì dei tagli e riorganizzando la nostra Pubblica Amministrazione, ma soprattutto dobbiamo ridurre quella parte della spesa pubblica che è per interessi. Nessuno scenderebbe in piazza per protestare contro questo taglio. Faccio calcoli approssimativi, ma state sicuri che la sostanza non cambia. Oggi paghiamo circa un 4% per servire il nostro debito pubblico. Se pagassimo il 2% risparmieremmo 40 miliardi l’anno di spesa pubblica. Qualcuno adesso mi chiederà sicuramente: ma come si possono ridurre i tassi di interesse se questi sono determinati dal mercato? Ne siete sicuri? Questo è quello che potrebbe dire un neoliberista come Mario Monti, ma noi tutti sappiamo da ormai più di 80 anni, dai tempi di Keynes, che i tassi di interesse non sono determinati dal mercato.
Se uno dovesse ridurre all’osso il pensiero di John Maynard Keynes, esso potrebbe essere sintetizzato così: i tassi di interesse, soprattutto quelli del debito pubblico, devono tendere allo zero e i tassi di interesse non sono stabiliti dal mercato ma da comitati di uomini e donne. Così intesero i primi commentatori dei giornali la Teoria Generale dell’Occupazione, della Moneta e dell’ Interesse. Come scrisse il «Manchester Guardian» il 24 febbraio del 1936 recensendo il libro:
Se allora lasciato a sé stesso il sistema economico non riesce a creare lavoro per tutti quelli che lo desiderano, un deus ex machina deve essere invocato. Lo Stato deve stimolare il consumo attraverso la redistribuzione del reddito e forzando in basso il tasso di interesse
Sulla stessa linea il «Times» di Londra che il 10 marzo 1936 scrive:
Il pieno impiego, secondo Keynes, può essere raggiunto soltanto attraverso una corretta politica monetaria… Keynes appare in questo libro non soltanto come il campione del cheap money, moneta a buon mercato, che è sempre stata associata al suo nome, ma anche come campione dell’espansione della spesa per servizi sociali come parte necessaria di una politica non solo economica ma anche sociale
Il più chiaro di tutti è un recensore canadese che sul «Canadian Forum» scrive il 16 maggio 1936:
Keynes crede con il suo modello si possa ridurre la disoccupazione e egli crede soprattutto che spingere il tasso di interesse in basso verso quasi zero risulterebbe in un formidabile moltiplicatore dell’attività economica. L’autore sembra suggerire che il governo debba fissare il tasso di interesse, allo stesso tempo eliminando la rentier class.
Eh sì, Keynes era molto più rivoluzionario di Marx. Non credeva alla lotta di classe tra lavoratori e capitalisti-imprenditori. Secondo lui la battaglia era tra i lavoratori e gli imprenditori alleati contro la plutocrazia, il potere delle elite finanziarie, che oggi sono tornate alla situazione precedente alla crisi del 1929 e di quella del 2007-09.
Lo dice bene oggi sul «Financial Times» Philip Stevens:
Le banquier est mort; vive le banquier. E’ tempo di ammettere la sconfitta. I banchieri ce l’hanno fatta un’altra volta. Si sono sbarazzati sia dei politici, sia dei regolatori e sia dagli incazzati cittadini per passeggiare trionfanti sulle rovine del grande crollo. Alcuni avevano pensato che la grande crisi del 2008 avrebbe potuto cambiare le cose. Siamo stati sciocchi. I banchieri stanno ancora collezzionando bonus multimilionari mentre pagano senza batter ciglio multe da miliardi di dollari. Paesi e società sono stati portati sull’orlo del fallimento, leader politici sono caduti come burattini e milioni di lavoratori hanno perso il lavoro. Eppure a Wall Street e nella City di Londra è business as usual. Il mondo è diventato più sicuro con un sistema finanziario liberalizzato? La breve risposta è: no!
Siamo in una situazione paradossale. JPMorgan ha pagato multe per 20 miliardi di dollari (notate miliardi, non milioni) ma il suo capo Jamie Dimon resta al suo posto e porta a casa ogni anno decine di milioni. E le multe sono addirittura deducibili fiscalmente. In Italia un banchiere, Corrado Passera, fregandosene di tutto quello che si dice, vuole fondare un suo partito.
Sulla «la Repubblica» di oggi, invece, Federico Fubini scrive:
“Se non si cura, l’Italia resta un corpo incapace di trasportare il fardello del suo debito e riprendere a camminare”.
Il discorso secondo me dovrebbe essere al contrario: l’Italia si cura riducendo il peso degli interessi.
Nel rapporto Top Secret del 15 maggio 1945 su come trattare il debito pubblico inglese dopo la guerra (National Debt Inquiry – first Report – The Question of Future Gilt-Edged interest Rates) preparato sotto l’egida di Keynes viene specificatamente detto in modo chiaro:
Il vero peso del debito pubblico è rappresentato – soprattutto dal punto di vista del contribuente fiscale, the tax payer, che è quello più interessato – non dal valore assoluto ma dal peso annuale degli interessi pagati per servire il debito.
Quali conclusioni se ne devono trarre? Intanto che non è tanto il valore assoluto del debito che conta, come l’ideologia dominante ripete giorno dopo giorno, ma gli interessi pagati su questo debito. Se il tasso di interesse sul nostro debito fosse dello 0,25% pagheremmo 5 miliardi di interessi l’anno (e sono già tanti, secondo me!) risparmiando 80 miliardi e usciremmo in due anni dalla crisi. Non c’è bisogno di raffinati strumenti come il famigerato DGSE model (Dynamic Stochastic General Equilibrium) usato dalle banche centrali per poter fare queste affermazioni. D’altra parte il DGSE, basato sull’assunzioni che i prezzi degli asset sono sempre al loro giusto valore, perché se non lo fossero qualche operatore di mercato se ne accorgerebbe (Efficient Market Hypothesis), del malfamoso premio nobel Fama, ha toppato miseramente prima della crisi.
Che il compito primario, number one, per l’Italia sia quello di cambiare le politiche sinora seguite dalla BCE e ribilanciarle verso quello che pensava Keynes spero sia chiaro ai giovani nuovi dirigenti del Partito Democratico. D’altra parte, è difficile che Mario Draghi possa sfuggire a quello che ormai sembra inevitabile. Come ha ricordato «The Economist» nel primo numero dell’anno, il 2014 quasi sicuramente sarà l’anno in cui la BCE dovrà diventare unconventional, cioè fare anch’essa politiche di quantitative easing, cioè creazione di moneta.
Poiché, non tutto è bene nelle politiche di quantitative easing fatte soprattutto negli Stati Uniti, dovremmo anche cominciare a chiederci quali potrebbero essere le politiche più appropriate di quantitative easing per l’Europa, politiche che non vadano solo a vantaggio dei balance sheet (stato patrimoniale) delle banche ma anche dei balance sheet delle famiglie e delle piccole e medie imprese (spesso i banchieri centrali si dimenticano che anche quest’ultimi devono farci i conti con il balance sheet).
Una forma particolare di quantitative easing che non incide solo sul valore degli asset finanziari, ma va a incidere direttamente sui flussi di reddito di chi lavora e delle imprese direttamente senza passare attraverso il sistema bancario è quella chiamata Overt Money Financing o Sovereign Money Creation.
Ne parleremo in modo approfondito in uno dei prossimi post.
Elido Fazi