Bruxelles – Era il cliente più ostico, quello che non si può redarguire in maniera troppo veemente ma che allo stesso tempo non può essere trattato come se nulla fosse. La quarta tappa del tour balcanico della presidente della Commissione Europea, Ursula von der Leyen, nei Balcani Occidentali è stata la più impegnativa: a Belgrado il presidente della Serbia, Aleksandar Vučić, ha ribadito che “il riconoscimento dell’indipendenza del Kosovo non è un’opzione, lo dico con orgoglio anche davanti alla presidente von der Leyen”. Il dialogo Pristina-Belgrado mediato dall’Ue rimane sempre in salita, anche se Bruxelles sta iniziando a mostrare un piglio più deciso per forzare le due parti a rispettare i propri obblighi internazionali.
Così come messo in chiaro ieri (30 ottobre) ai leader kosovari durante la tappa a Pristina, von der Leyen si è attenuta alla dichiarazione dei leader di Francia, Germania, Italia e Ue a margine del Consiglio Europeo di giovedì scorso (26 ottobre) nel ribadire quali sono le due priorità non più negoziabili e prorogabili: la creazione dell’Associazione delle municipalità a maggioranza serba in Kosovo e il riconoscimento de facto della sovranità di Pristina da parte della Serbia. In quello che si configura da più di un mese come il momento più basso dei rapporti tra i due Paesi – dopo “l’inaccettabile attentato nel nord del Kosovo” – per la presidente von der Leyen e per tutte le istituzioni comunitarie rimane comunque imprescindibile la normalizzazione dei rapporti tra i due Paesi balcanici. “La Serbia deve implementare gli accordi esistenti e non perdere tempo“, è stata l’esortazione di von der Leyen, che ha sottolineato come tutto questo sia già scritto nelle intese prese nel quadro del dialogo facilitato: “Si tratta dell’implementazione dell’accordo di Ohrid [del 18 marzo, ndr] con il riconoscimento di documenti e istituzioni del Kosovo da parte della Serbia“.
Ma non è solo una questione di normalizzazione delle relazioni tra i due Stati. “È una pre-condizione necessaria per la rispettiva strada europea”, ma soprattutto è anche “l’unico modo per accedere al nuovo Piano di crescita per i Balcani Occidentali“. In altre parole, senza progressi nei rapporti con il Kosovo rimarranno in stallo i finanziamenti previsti per la Serbia all’interno del pacchetto complessivo da 6 miliardi di euro e fondato su quattro pilastri. Il primo riguarda l’integrazione nelle dimensioni chiave del Mercato unico dell’Ue, il secondo è legato al completamento del Mercato regionale comune, il terzo si basa sul liberare il pieno potenziale economico attraverso riforme fondamentali sia sullo Stato di diritto sia in materia economica. E infine il pilastro del finanziamento da parte di Bruxelles: il pacchetto da 2 miliardi di euro in sovvenzioni e 4 in prestiti. “Abbiamo fatto esperienza all’interno dell’Unione Europea di combinare riforme e investimenti dopo la pandemia Covid-19 con il Next Generation Eu e ha funzionato molto bene”, ecco perché “spingerà le vostre economie, creerà buoni posti di lavoro e certamente vi supporterà nel cammino europeo”, ha assicurato von der Leyen: “È l’offerta giusta nel momento giusto“.
L’escalation tra Serbia e Kosovo dopo il 24 settembre
Tutto è scaturito dall’attacco terroristico iniziato nelle prime ore del 24 settembre nei pressi del monastero serbo-ortodosso di Banjska, quando la polizia kosovara è arrivata per la segnalazione di un posto di blocco illegale al confine con la Serbia. Gli agenti sono stati attaccati da diverse postazioni da un gruppo di una trentina di uomini armati con un pesante arsenale di armi da fuoco che, dopo aver ucciso un poliziotto e averne feriti altri due, è entrato nel complesso monastico dove si trovavano pellegrini provenienti dalla città serba di Novi Sad. Per tutta la giornata sono proseguiti gli scontri durante “l’operazione di sgombero”, in cui sono morti tre dei terroristi.
Gli sviluppi del post-24 settembre hanno però tratteggiato un quadro molto più grave del previsto, con diramazioni evidenti nella vicina Serbia. Come evidenziato da un video girato da un drone nel giorno dell’attentato, tra gli attentatori all’esterno del monastero c’era anche Radoičić, vice-capo di Lista Srpska. Mentre la polizia kosovara ha scoperto un arsenale di armi ed equipaggiamento enormi a disposizione dei terroristi, venerdì (29 settembre) lo stesso Radoičić ha confermato di aver guidato l’attacco armato, mettendo in difficoltà il leader serbo. Questa confessione ha gettato una lunga ombra non solo sulla partecipazione della leadership dei serbo-kosovari in una strategia di destabilizzazione del Paese che potenzialmente va avanti da anni, ma soprattutto sulla capacità di Vučić di interferire negli affari interni di Pristina in modo più o meno nascosto e violento. A questo si aggiungono le rivelazioni sulla presenza anche di Bojan Mijailović (uno dei tre attentatori uccisi), guardia del corpo del capo dei servizi segreti serbi, Aleksandar Vulin, e soprattutto di Milorad Jevtić, stretto collaboratore del figlio del presidente serbo, Danilo Vučić. Secondo quanto emerso da un’indagine di Balkan Insight, le armi utilizzate nell’attacco erano state fabbricate in Serbia nel 2022 e alcuni proiettili di mortaio e granate erano stati riparati nei centri di manutenzione statali serbi nel 2018 e nel 2021.
Le relazioni tra Kosovo e Serbia sono però crollate durante il successivo fine settimana, quando gli Stati Uniti hanno avvertito di un “grande dispiegamento militare” serbo lungo il confine amministrativo con “un allestimento senza precedenti di artiglieria avanzata, carri armati e unità di fanteria meccanizzata”. Mentre anche da Bruxelles è arrivato un avvertimento a Belgrado che “non c’è posto per armi e forze di sicurezza ammassate nel continente europeo, le forze militari serbe devono ritirarsi“, il Regno Unito ha inviat un contingente per rafforzare la Kosovo Force (Kfor), la forza di pace internazionale a guida Nato che attualmente conta sul campo 4.811 soldati internazionali guidati dal generale italiano Michele Ristuccia. Secondo quanto denunciato dal primo ministro kosovaro, Albin Kurti, “sulla base della documentazione confiscata “l’attacco terroristico faceva parte di un piano più ampio per annettere il nord del Kosovo “attraverso un attacco coordinato su 37 posizioni distinte”, a cui sarebbe seguita la creazione di un corridoio verso la Serbia “per consentire il rifornimento di armi e truppe”.
Come fanno notare gli analisti sul campo, sembra più verosimile pensare che per la Serbia fosse più conveniente minacciare un attacco per imporre indirettamente alla Kfor di prendere il controllo della gestione dell’ordine pubblico nel nord del Kosovo, di fatto esautorando la polizia kosovara e impedendo a Pristina di esercitare la piena sovranità sul territorio rivendicato dopo la dichiarazione di indipendenza unilaterale del 2008. Uno scontro con la Nato scatenato da un’invasione effettiva del Kosovo potrebbe rappresentare per Vučić un suicidio politico – in vista di possibili elezioni anticipate al 17 dicembre – e per la sua credibilità internazionale. Anche se sostenuta dalla Russia, la Serbia non potrebbe sostenere l’isolamento internazionale, né sul piano militare né su quello economico. Intanto a Bruxelles si sono inoltre intensificate le discussioni sulla possibilità di imporre “misure temporanee e reversibili” (non sanzioni) contro la Serbia, anche se la questione è resa particolarmente spinosa per la dichiarata opposizione dell’Ungheria di Viktor Orbán.
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