Bruxelles – Mancano meno di ventiquattr’ore al vertice di (alcuni) leader europei indetto per cercare di elaborare proposte sensate e condivise da presentare al Consiglio europeo della settimana prossima sul tema immigrazione. L’emergenza – o meglio, la percezione della stessa presso le opinioni pubbliche – è resa grave dal rischio che si profili all’orizzonte una delle più grandi crisi dell’Unione, potenzialmente foriera di scenari imprevedibili. Una delle proposte messe sul tavolo dall’esecutivo Ue per fronteggiare la questione (o, a seconda dei punti di vista, metterci una pezza) è quella di creare un meccanismo di sbarchi regionali per i migranti al di fuori dell’Ue, coinvolgendo gli Stati del Mediterraneo. Eunews ne ha parlato con Ferruccio Pastore, direttore del Forum of International and European Research on Immigration (Fieri) di Torino. Il direttore ha spiegato come la soluzione, al di la di quello che possa sulla carta, presenta più di un problema, di natura politica, tecnica e persino psicologica. E che, soprattutto, non esistono vie d’uscita semplici a temi complessi ed epocali, e chi pensa il contrario vive d’illusioni.
Eunews: Come nasce l’idea del meccanismo di sbarchi regionali fuori dall’Ue?
Pastore: L’idea dell’esame delle domande di asilo cui far seguire un resettlement (ricollocamento, ndr) delle persone che superano l’esame non è affatto nuova – è stata chiamata in passato “offshore processing”. La stessa commissione Ue ha fatto i primi studi in materia vent’anni fa, a metà degli anni 2000, in particolare nel 2005 quando, a Ceuta e Melilla, furono esplosi colpi di arma da fuoco contro i migranti – forse, si dice, dalla gendarmeria marocchina – e vi furono momenti di autentica emergenza. Venne fuori così l’idea di una dinamica che si basasse su centri extra-territoriali dove ricevere e assistere i migranti, esaminare le relative posizioni e domande di asilo e decidere della loro destinazione. Se a livello europeo tali centri ancora non si sono concretizzati un motivo c’è: vi sono difficoltà molto grandi soprattutto a livello politico.
Eunews: esistono altrove nel mondo esempi simili? Che caratteristiche hanno questi centri e quali sarebbero le differenze?
Pastore: si, in Canada ad esempio. Funzionari canadesi si recano in Etiopia o nel Sudan, nei campi profughi, operano le opportune selezioni e decidono chi trasferire in Canada. Nei suddetti campi tutti i rifugiati avrebbero diritto alla protezione perché vengono da esodi di massa, ma i canadesi ne scelgono solo alcuni, in base a quote prestabilite e a criteri di “integrabilità nazionale”.
Per noi sarebbe diverso. Per quello che si capisce, non è che l’Ue potrebbe fare la stessa cosa, ovvero andare nei campi (creati dalla stessa Unione ad hoc in Africa ndr) e scegliere sulla base di un contingente fissato a monte. La logica dell’Ue è quella di risparmiare a moltitudini immense un attraversamento che sarebbe fonte di enormi sofferenze e problemi politici. Questa intenzione, si tradurrebbe, in concreto, nell’andare là e scegliere tutti i rifugiati che hanno diritto alla protezione (il cui numero potrebbe diventare molto grande ndr). Ma nei flussi misti che arrivano – nei campi dell’Ue – ci sarebbe dentro di tutto, non solo i richiedenti asilo. Tale approccio è molto diverso di quello che sussiste quando si agisce nell’ambito di una quota, che costituisce già una pre-selezione di tutti quelli che sono eleggibili.
Senza tetto massimo, poi, si crea un problema “politico”: quelli che passano la selezione dove li metti? Qui entra in gioco l’attuazione del principio di solidarietà tra stati europei. Ovvero, se non si è raggiunto un accordo sul criterio di ripartizione per i 160.000 casi previsti dalla cosiddetta “relocation”, quale sarebbe il criterio di ripartizione per i 100.000 (ad esempio) che dovessero passare l’esame? E chi se li prenderebbe? Supponendo poi che ci sia un accordo tra gli Stati europei, cosa succederebbe con i 60.000 , diciamo così, “scartati” ?
Eunews: la relocation rimane un grande problema irrisolto.
Pastore: la relocation funzionava un po’ così: dato un certo numero di persone che hanno delle rivendicazioni (in termini di diritto di asilo ndr) molto fondate, che sono già sul territorio, ci mettiamo d’accordo su un piano di smistamento che, però, nello specifico, non ha funzionato. La Commissione sostiene che molti di quelli che hanno i requisiti giusti sono stati ricollocati ma i criteri sono molto restrittivi. Quasi tutti quelli che arrivano sono fuori da questi criteri. Quello era un modello di smistamenti all’interno dell’unione – nei centri italiani, ad esempio, c’è un apparato complesso e alla fine ne sono partite poche migliaia. In realtà, il problema è anche che mezza Unione, anche se non lo dice, ha la stessa opinione dei Paesi di Visegrad, che si sono esposti molto di più. Molti altri, che si sono nascosti, pensano che non ci debba essere “mai più” un sistema vincolante, non lo vogliono.
Eunews: tornando ai centri extra-europei, dove si potrebbe situare tali centri?
Pastore: facciamo l’esempio di un centro in Tunisia. Come sarebbe regolato l’accesso? Se i centri fossero aperti e liberi arriverebbero masse di persone, molte delle quali non avrebbero probabilmente i requisiti di “eligibility”. Il centro diventerebbe con tutta probabilità un bacino e un mercato per i trafficanti. I non “prescelti” dai selezionatori non tornerebbe certo nel Sub Sahara e questo presenterebbe un grave problema pratico. E poi, sul serio, dove si potrebbero creare dei centri in condizioni di sicurezza? L’ambasciatore della Tunisia ha detto di recente che non se ne parla proprio. Sono mesi che gli italiani ci provano ma i tunisini ritengono che finirebbe per essere una trappola e molto pericolosa per loro.
l’ipotesi tunisina è difficile per le ragioni che abbiamo visto e anche perché ai libici o ai rifugiati in Libia basta prendere un barcone per raggiungere le coste tunisine. Per quanti soldi si diano ai tunisini, sarebbe un fardello molto duro per un Paese che è fragile politicamente, ed è uno dei pochi Paesi nordafricani dove la cosiddetta “primavera araba” ha avuto successo (e ha una delle maggiori percentuale di combattenti della jihad, in Siria e altrove, in rapporto alla popolazione ndr). Una cosa del genere creerebbe grande tensione, potrebbe essere molto pericolosa.
Eunews: Si è parlato anche di Albania.
Pastore: un’ipotesi in tal senso farebbe ripartire quel business criminale di ogni genere, uomini e cose, che l’Italia ha combattuto per anni , in cooperazione con le autorità albanesi del tempo, peraltro con successo.
Eunews: e gli accordi (già in atto da tempo) con la Turchia?
Per la Turchia è diverso. I migranti dei quali parliamo si trovavano già sul territorio turco. Semplicemente, la Turchia ha monetizzato un problema che già aveva e intanto ha bloccato le frontiere con la Siria.
Eunews: e i campi nei Paesi africani?
Pastore: I campi profughi del Kenya e Uganda sono posti molto brutti e costosi su cui qualcuno lucra e guadagna. I governi locali si lamentano ma intascano molti aiuti che a loro volta gestiscono a modo loro, aumentando nel contempo l’influenza sulla scena internazionale. Per la popolazioni limitrofe sono siti non molto belli, dal momento che esiste rischio di centri di raccolta di rifugiati informali e gravitanti intorno.
Altri esempi sono costituiti dai processing center in uno dei campi etiopi o, un po’, da quello che sta facendo Unhcr dalla Libia al Niger. L’agenzia Onu seleziona una piccolissima quota di rifugiati, altamente vulnerabili, li tira fuori dai campi illegali, tratta con coloro che detengono i migranti, per i quali essi sono una merce preziosa. Li portano in Niger, dentro i campi, e da lì c’è il resettlement in Europa. Il programma è ad alto valore simbolico (riguarda poche persone). E’ perlopiù conseguente a quello che è avvenuto l’anno scorso in Libia, dopo che sui media sono state disvelate le condizioni dei campi, dove c’erano vere e proprie condizioni di schiavitù, i governi africani si sono sentiti in imbarazzo e la reazione è stata “svuotiamo la Libia”. Ma trasformare un modello come quello del campo Unhcr in qualcosa di aperto a tutti quelli che arrivano diventerebbe molto complesso.
Eunews: Quale potrebbe essere, secondo lei, l’approccio dei leader europei in merito alla proposta?
Pastore: Si tratta di una ricetta molto complessa, prima di adottarla e accettarla bisogna capirla meglio. In questo campo si sono viste molte volte strategie e decisioni politiche adottate in mala fede solo per vendere qualcosa all’opinione pubblica.
La logica in concreto è: noi paghiamo tutto quello possiamo perché se li tengano in Africa, al di là del Mediterraneo, e intanto raccontiamo che stiamo mettendo in piedi le piattaforme per accogliere i migranti (nei Paesi extra Ue ndr), così teniamo buoni coloro che si battono per i diritti umani. Le politiche migratorie sono, in generale, politiche ad altissima valenza simbolica – da qui si cerca di dare un valore umanitario all’esternalizzazine, con controlli e selezioni varie. E’ qualcosa che resta sulla carta, in genere si forma un nucleo di persone che gravitano attorno ai centri.
Eunews: e il ruolo dei populismi europei sul tema immigrazione?
Pastore: l’etichetta di populismo è fuorviante, ma se c’è una cosa che accomuna molte forze politiche è che cercano di vendere soluzioni facili per un problema che non ha soluzioni facili. Se si comincia a riconoscere apertamente e sbugiardare chi cerca di far credere che ci sono soluzioni facili avremmo fatto un passo avanti.
Eunews: che soluzione, allora?
Pastore: L’idea dell’esternalizzazione è attraente, sulla carta, perché concilia la necessità di controllo e le esigenze di protezione. Ma il problema è gigantesco e tremendamente sfaccettato. Non c’è un “silver bullet”, una soluzione semplice e univoca. Qualsiasi soluzione è complessa, lenta, costosa, contradittoria e dolorosa perché sacrifica altri interessi e giuste pretese. I canali umanitari devono essere una parte della soluzione, sapendo che sono soltanto un piccolo tassello di una risposta che deve essere molto più ampia. Non ci sono solo le 10 mila persone di Frontex in più e la costituzione di centri regionali; la cosa importante è prendere sul serio la faccenda. Dire “aiutiamoli a casa loro” , alla lettera, è una intenzione sacrosanta, ma comporterebbe la necessità di investire somme enormi. Il “Marshall Plan”– una soluzione attuata nel dopoguerra dagli Stati Uniti per ricostruire l’Europa distrutta dalla guerra, che i governanti europei hanno proposto più volte, come un mantra, in una sua versione “per l’Africa” ndr – ha previsto (quello originale) uno stanziamento di 1000 miliardi di euro attuali in pochi anni. Il Fondo Fiduciario europeo per l’Africa, invece, ammonta a 50 – 70 milioni.
Infine, c’è l’idea della quale ho letto ieri su Euobserver, della serie fare quello che avviene a Ceuta e Melilla, che sono enclave europee in territorio africano. Potrebbero diventare piattaforme dove gli aspiranti rifugiati si recano e vengono valutati per una successiva eventuale destinazione in Europa. Bisogna vedere cosa ne penserebbe il governo spagnolo. (che viene indicato come coraggioso ma poi, bisognerebbe vedere).
Oltre a essere direttore del Fieri di Torino, Ferruccio Pastore è stato vicedirettore del Centro studi di politica internazionale (CeSPI) di Roma. Ha pubblicato numerosi saggi e articoli sulle migrazioni internazionali e sulle politiche migratorie, in Italia e all’estero e ha svolto attività di consulenza in tema di politiche migratorie per organizzazioni internazionali (tra cui Oim e Acnur) e istituzioni nazionali (tra cui il Comitato Parlamentare Schengen-Immigrazione).