di Paolo Caretti
Può apparire quanto meno singolare che proprio nel momento in cui il processo di integrazione europeo attraversa forse la sua crisi più profonda si vadano moltiplicando le proposte volte a difenderlo ed anzi a rilanciarlo verso mete più ambiziose di quelle sin qui perseguite. In realtà chi conosce le vicende complesse del processo avviato ormai sessanta anni fa sa bene che esso ha da sin dall’inizio conosciuto bruschi arresti e di rapide riprese, secondo una logica incrementale non sempre coerente ma tuttavia in grado di assicurarne lo sviluppo. Dunque se non dobbiamo meravigliarci più di tanto se anche in quest’occasione quel fenomeno si ripresenta, il compito che invece ci spetta è quello di valutare il senso delle diverse proposte che oggi sono destinate ad animare il dibattito, quale rapporto esse intrattengono con il passato e il presente dell’Unione, quale direzione di marcia esse ci indicano.
Tra le proposte più articolate e interessanti apparse di recente vi è certamente quella che fa capo a Stéphane Hennette, Thomas Piketty, Guillaume Sacriste e Antoine Vauchez (Democratizzare l’Europa! Per un Trattato di democratizzazione dell’Europa). Già il titolo ci orienta: si tratta di una proposta che punta a metter mano all’architettura istituzionale dell’Unione in vista del superamento o quanto meno della riduzione del suo “deficit democratico”. Il tema non è certo nuovo, giacché percorre da sempre non solo la sterminata letteratura sui profili istituzionali (potremmo dire sulla forma di governo) dell’Unione, ma ha visto impegnate a più riprese le stesse istituzioni europee.
A questo riguardo, bastino alcuni rapidi richiami. Si ricorderà che nella Dichiarazione n.23, annessa al trattato di Nizza (2000), il tema di un maggior coinvolgimento dei parlamenti nazionali nelle decisioni di livello europeo veniva indicato come una delle questioni da porre al centro della riunione del Consiglio europeo di Laeken, che si sarebbe tenuta l’anno successivo. E questo tema viene inserito nell’agenda politica dell’Unione europea proprio in quell’occasione. Tutto questo avviene perché uno dei mancati obiettivi del trattato di Nizza era stato proprio quello di riformare la forma di governo comunitaria in modo da accentarne il tasso di democraticità, con ciò rispondendo alle mai sopite polemiche circa appunto il suo deficit democratico. Una riforma che avrebbe dovuto avere nell’accentuazione del ruolo del Parlamento europeo il suo asse portante.
Ma, nonostante alcuni progressi fatti in questa direzione (soprattutto attraverso l’ampliamento della procedura di codecisione, l’obiettivo poteva considerarsi sostanzialmente mancato. Si tratta di una spinta al cambiamento che tuttavia nasce e si sviluppa all’insegna dell’ambiguità e della contraddittorietà: da una parte il timore di rompere equilibri ormai consolidati tra le istituzioni europee (pur di fronte ad un Parlamento europeo ormai da tempo ad elezione diretta), dall’altra la suggestione di supplire alla mancata riforma con una valorizzazione dei parlamenti nazionali, quasi a rimpiangere il modello precedente che con proposte che vengono discusse negli anni immediatamente successivi come, ad esempio quella avanzata nel 2002 da J. D’Estaign, volta all’istituzione di una seconda Camera legislativa, il Congresso dei popoli, formato appunto in via indiretta dai vari parlamenti nazionali.
Al fondo di proposte di questo tipo stava l’idea di fare dei parlamenti nazionali un elemento di legittimazione interna della forma di governo europea, ma appunto con evidenti contraddizioni con l’esistenza di un Parlamento europeo che avrebbe di per sé dovuto (ma con poteri diversi e più ampi) assolvere a questo compito. Abbandonata questa prospettiva, un’altra comincia a farsi strada che vede invece nei parlamenti nazionali un elemento di legittimazione esterna e ne concepisce il ruolo in termini collaborativi nei confronti delle istituzioni europee; un ruolo autonomo e non più mediato dagli esecutivi nazionali (si vedano i due Protocolli annessi al trattato di Lisbona sul ruolo dei parlamenti nazionali e sul controllo preventivo sul corretto ricorso al principio di sussidiarietà da parte delle istituzioni europee).
Tutta giocata sul ruolo dei parlamenti nazionali è anche la proposta che si riassume nel Trattato proposto da Piketty e dagli altri tre coautori del progetto che può in estrema sintesi riassumersi nel modo seguente. Muovendo dalla constatazione che la crisi economico-finanziaria che ha colpito l’Unione e in particolare i paesi aderenti alla moneta unica, ha, tra le altre cose, prodotto una sorta di “governo della crisi” (quello che viene chiamato la “governance dell’eurozona”: BCE, Commissione, Eurogruppo dei ministri delle finanze dell’eurozona, Summit dell’eurozona), che agisce al di là delle regole ordinarie e soprattutto al riparo da ogni forma di controllo e di condizionamento da parte dei parlamenti nazionali e del Parlamento europeo, l’obiettivo che ci si propone è quello di rimediare a questo aggravarsi del deficit democratico attraverso l’istituzione di un nuovo organismo (una nuova istituzione), l’Assemblea dell’eurozona.
Lo strumento individuato per arrivare alla sua istituzione non è una modifica dei trattati esistenti, ma la stipulazione di un apposito trattato tra i paesi che appartengono all’eurozona, i cui parlamenti sarebbero chiamati a designare i propri rappresentanti nella nuova Assemblea. Quest’ultima, dotata di un vero potere legislativo, da esercitare di concerto con l’Eurogruppo, nonché di poteri rilevanti di vigilanza e controllo sull’operato di tutti gli organismi coinvolti nel governo dell’eurozona, dovrebbe così diventare uno dei protagonisti della costruzione di un’Europa in grado di coordinare le politiche economiche degli Stati membri, di armonizzarne i sistemi fiscali e le politiche di bilancio. In una parola, come viene espressamente detto nella presentazione del progetto, un’istituzione che deve occuparsi di quello che è il cuore dei patti sociali degli Stati membri e che proprio per questo non può che “chiamare a raccolta in modo diretto i Parlamenti nazionali”.
Detto dell’interesse che la proposta presenta, credo che vada detto con altrettanta chiarezza che essa non sfugge all’ambiguità e alla contraddittorietà che hanno, sia pure in misura diversa, caratterizzato le proposte avanzate in passato e che si muovevano nella stessa direzione. Veniamo agli elementi di contraddittorietà. Come detto, il progetto muove da una critica serrata e, a mio avviso, pienamente condivisibile, dell’“atipicità” di tutto quanto avvenuto nell’Unione per fronteggiare la crisi dell’eurozona, a partire dagli accordi stipulati al riguardo: dal trattato sul meccanismo di stabilità europeo (MES), al trattato sulla stabilità, sul coordinamento e sulla governante (TSCG) , al “six pack” e “two pack”. Un’atipicità certo non risolta dalla ricorrente clausola di stile per cui questi strumenti e il loro contenuto sono da intendersi e da interpretare come conformi al “diritto ordinario” dell’Unione.
Ebbene, pur muovendo da questa posizione critica, il progetto sfrutta la scia di quanto sin qui avvenuto (citando al riguardo la nota sentenza Pringle della Corte di giustizia) per mettere in campo una posposta ben più “atipica” di quanto non si presentino gli accordi ora richiamati. Anzi, direi più che atipica “alternativa” rispetto all’attuale architettura istituzionale dell’Unione. Quando si afferma (come si fa nella presentazione) che oggi la vera Europa non può essere più quella del mercato unico, ma quella che riesca a cucire insieme scelte di politica economica, monetaria e fiscale e politiche sociali, quella che, in altre parole, sia in grado di darsi e di attuare una vera e propria costituzione economica, non si allude all’inserimento di un qualche mero correttivo istituzionale utile al miglior esercizio di una specifica funzione, ma, si ragiona nell’ottica di dar vita ad un sistema istituzionale alternativo rispetto a quello ordinario, ritenuto (torto o a ragione) immodificabile, almeno al momento attuale e dunque inidoneo al perseguimento degli ambiziosi obiettivi sottesi al progetto.
Che tutto questo avvenga col ricorso ad un trattato concluso da una parte degli Stati membri che formalmente, come affermato allora dalla Corte, non intende violare alcun obbligo precedentemente assunto dagli stessi, non muta la sostanza delle cose. Siamo di nuovo di fronte ad una proposta che accentua anziché ridurre la tendenza a trovare soluzioni “speciali” per problemi che viceversa dovrebbero essere affrontati dalle istituzioni europee esistenti, se del caso opportunamente modificate. Ma così, la contraddittorietà si traduce nell’implicita rinuncia ad ogni prospettiva che punti invece a proseguire nel difficile cammino volto ad introdurre proprio nell’ordito istituzionale attuale gli elementi necessari ad una sua maggiore “democratizzazione”, necessaria per i compiti nuovi e più impegnativi che un’Unione politica è chiamata a svolgere. Con la conseguenza di complicare ulteriormente complessi processi decisionali, aprendo la strada ad una difficile convivenza tra due sistemi paralleli, mal raccordati l’uno all’altro e dunque probabilmente fonte di numerosi conflitti di competenza.
Quanto agli elementi di ambiguità, basti accennare al dichiarato intento di valorizzare il ruolo dei parlamenti nazionali che non si vede come possa conciliarsi con quello (indiretto, di partecipazione esterna) disegnato dai due Protocolli che si sono richiamati. Ma, soprattutto, non si vede perché il ritorno ad un’assemblea ad elezione indiretta dovrebbe assicurare un tasso di democraticità più alto di quello garantito oggi dal Parlamento europeo, che non è stato in grado di contrastare gli opachi sviluppi istituzionali seguiti alla crisi dell’eurozona non perché fosse poco rappresentativo delle diverse forze politiche in campo in Europa perché sganciato dai parlamenti nazionali, ma soprattutto perché ha scontato fino in fondo la debolezza dei suoi poteri; una debolezza che ne fa l’istituzione dell’Unione con minor peso nelle decisioni che contano.
Così come un altro elemento di ambiguità del progetto consiste nel presentarlo in chiave minimalista, come se si trattasse di introdurre un mero sistema aggiuntivo all’assetto istituzionale esistente mentre in realtà ciò che si propone appare, come detto, prospettare uno scenario nel quale e sul nuovo assetto che si punta per un ulteriore sviluppo del processo di integrazione europeo, mentre il vecchio sembrerebbe destinato ad un ruolo recessivo e alla fine ad essere in larga parte riassorbito nel nuovo. Che questa ipotesi abbia una reale possibilità di attuazione è quanto meno lecito dubitare, mentre è certo che il progetto qui esaminato consegnerebbe l’Unione ad un lungo periodo di instabilità e confusione istituzionale.
In sintesi, a me pare che, al di là di ogni altra considerazione, sia proprio la prospettiva nella quale si muove il progetto “Piketty” a non convincere, sempre che si punti davvero ad una Unione politica e democraticamente responsabile.
Pubblicato sul sito dell’Osservatorio sulle proposte di riforma dell’Unione europea il 4 giugno 2017.