di Mauro Poggi
Le Monde Diplomatique pubblica un buon articolo sull’ordoliberismo, l’ideologia socioeconomica neoliberista di matrice teutonica che sta alla base del sistema europeo e ne conforma tutta la logica. È un articolo piuttosto lungo, anche a volerlo riassumere come ho cercato di fare. Nonostante ciò, è una lettura che raccomando: conoscere quali sono i postulati in base a cui ci vengono imposte oggi le politiche che riguardano il nostro quotidiano può essere un buon tonico per rinvigorire il nostro spirito critico, infiacchito dalla lunga crisi che quelle stesse politiche hanno prodotto.
Inoltre, è sempre utile constatare che i sostenitori del pensiero unico, quelli che rimproverano agli irriducibili del primato della politica di voler risolvere i problemi di oggi con strumenti culturali vecchi di mezzo secolo, alla fin fine propongono soluzioni basate su teorie nate novant’anni fa.
«Se c’era ancora bisogno della prova del pericolo che i referenda rappresentano per il funzionamento delle democrazie moderne, eccola». (Der Spiegel, il 6 luglio 2015, commentando la vittoria dell’oxi al referendum greco).
Questa reazione esprime il contrasto fra due concezioni di governo: la prima, propriamente politica, per cui il suffragio popolare dovrebbe prevalere sulle regole contabili e il potere eletto dovrebbe poter scegliere di cambiare le regole se è questo che il popolo gli chiede; la seconda, tecnico-burocratica, che al contrario subordina l’azione di governo e la volontà popolare alla stretta osservanza di un ordine.
Nella seconda visione, ravvisabile nella stizza espressa dal settimanale tedesco, i politici possono agire come credono purché la loro azione non esca dal quadro prestabilito, che per essere asseritamente “oggettivo” esula dal processo democratico.
Questa ideologia ha un nome e una nazionalità: è l’ordoliberismo tedesco.
Come i neoliberisti anglosassoni, gli ordoliberali rifiutano che lo Stato intervenga a falsare il libero gioco del mercato. Ma a differenza dei primi essi non ritengono che la libera concorrenza si possa sviluppare spontaneamente. Lo Stato è tenuto ad organizzarla, costruendo le condizioni giuridiche, tecniche, sociali e culturali che la rendono possibile.
La Ordnungspolitik, questa elaborazione liberista dell’intervento statale, nasce a Friburgo, nell’inquieto periodo che va dalla fine della grande guerra alla seconda guerra mondiale, con la grande crisi del 1929 e l’affermazione del partito nazista del 1933. Tre professori universitari, gli economisti Walter Eucken (1891-1950) e Franz Boehm (1895-1977) e il giurista Hans Grossmann-Doerth (1894-1944), si trovano a riflettere sul problema dei monopoli e degli accordi di cartello. Insieme elaborano un programma di ricerca articolato intorno alla nozione di ordine (Ordnung), inteso come costituzione economica e regola del gioco. Per neutralizzare i cartelli ed evitare che la guerra economica degeneri, dicono, occorre uno Stato: abbastanza forte per assicurare le strutture, il quadro istituzionale, l’ordine entro cui l’economia di mercato possa funzionare; abbastanza saggio da evitare la tentazione di intromettersi nel processo economico.
Contrariamente ai liberisti classici, gli ordoliberali non considerano il mercato o la proprietà privata delle risultanze naturali, ma costruzioni umane, dunque fragili. Dovere dello Stato è creare il quadro che favorisca il normale sviluppo del processo: formazione dei lavoratori, infrastrutture, incentivo al risparmio, leggi sulla proprietà, sui contratti, sui brevetti, ecc. Fra quadro e processo si inserisce la moneta. Eucken insiste sul primato della politica monetaria e sulla necessità di sottrarla alle pressioni politiche e popolari. Non soltanto una buona costituzione monetaria deve evitare l’inflazione, ma, al pari dell’Ordnung concorrenziale, essa deve funzionare il più automaticamente possibile, altrimenti l’influenza dei gruppi di interesse e dell’opinione pubblica costringerebbe i responsabili monetari a deviare dal loro obiettivo più sacro: la stabilità monetaria.
I lavori del circolo ordoliberista di Friburgo ispirarono due economisti Wilhelm Röpke (1899-1966) et Alexander Ruestow (1885-1963), che aggiunsero alla nuova dottrina riferimenti storici e sociologici e una forte dose di conservatorismo. Essi individuarono l’epicentro della crisi del 1929 non tanto nella sfera economica in sé, quanto piuttosto nella disintegrazione dell’ordine sociale che il laissez-faire provocava.
La modernità aveva generato un proletariato disumanizzato, uno Stato sociale obeso, un deleterio fervore collettivista.
Roepke oppone la rivolte delle élite alla rivolta delle masse. Per restituire ai lavoratori l’antica dignità, essi dovrebbero tornare alle diverse comunità pre-democratiche pensate come naturali (la famiglia, il comune, la chiesa), mentre la cultura dell’egualitarismo andrebbe sradicata.
Ruestow scrive:
Sacrificando al culto del Moloch liberale si sono negati i principi dello scaglionamento sociale sostituendoli con l’ideale, falso e sbagliato, dell’uguaglianza e quello, parziale e insufficiente, della fratellanza; poiché nella piccola come nella grande famiglia più importante che il rapporto da fratello a fratello è quello da padre a figlio, che assicura la continuazione delle generazioni e il mantenimento della tradizione culturale.
Röpke e Ruestow, di cultura cristiana come i loro colleghi di Friburgo, caricano la nozione d’ordine del senso che gli dà Sant’Agostino: l’ordine come regola di disciplina ordinatrice della vita comune.
Lo slancio dell’ordoliberismo si inscrive in un vasto movimento internazionale di rinnovamento del pensiero liberali, che si sviluppa negli anni ’30 sotto l’etichetta di neoliberismo. In questo quadro gli ordoliberisti si oppongono ai nostalgici del laissez-faire (Ludwig von Mises e il suo alunno Friedrich Hayek) che non trovano nulla da criticare o cambiare al liberismo tradizionale.
A fine 1930 i propugnatori dell’ordoliberismo restano marginali. Non dispongono di entrature nella Germania nazista, anche se molti di essi partecipano a cerchi di riflessione economica del regime – come Ludwig Erhard (1897-1977) e d’Alfred Müller-Armack (1901-1978). Röpke e Rüstow devono espatriare, altri possono continuare a insegnare solo rinunciando alle loro idee.
La riscossa arriva con la caduta del nazismo.
In Germania Ovest, a differenza che in Francia, Italia o Regno Unito, la ricostruzione avviene su basi liberiste piuttosto che socialdemocratiche. La potenza occupante più influente, gli USA, impedisce le nazionalizzazioni. Gli USA facilitano in vario modo la transizione verso un’economia aperta, ideale per le esportazioni tedesche.
Si favorisce (1948-49) la costruzione di un sistema che fonde l’ordoliberismo e la dottrina sociale cristiana in quella che viene chiamata “economia sociale di mercato” (locuzione che verrà ripresa dai trattati di Maastricht con l’aggiunta della puntualizzazione “fortemente competitiva”).
Espressione felice ma ingannevole: «Il suo carattere sociale – precisa nel 1948 l’inventore della formula, Müller-Armack – consiste nel fatto che il sistema è in grado di offrire una massa diversificata di beni a prezzi che il consumatore contribuisce a determinare attraverso la domanda».
Una serie di misure cercano di palliare l’ineguaglianza che il modello competitivo genera: mantenimento del sistema di assicurazione sociale edificato da Bismark, imposta sui redditi, alloggi sociali, aiuto alle piccole imprese… In breve, il “sociale” nella misura in cui lo Stato deve assicurare all’economia di mercato la società confacente alle sue esigenze di funzionamento.
La Germania del dopoguerra è un laboratorio neoliberista, in cui il capo-laboratorio, Ludwig Erhard, è prima responsabile dell’amministrazione economica della zona occupata da Stati Uniti e Regno Unito (la Bizona), poi ministro dell’economia sotto Konrad Adenauer (1949-1963) e finalmente cancelliere (1963-1966). Sotto la sua direzione viene introdotta la maggior parte delle riforme strutturali associate al “miracolo economico” tedesco, in particolare la liberalizzazione dei prezzi e la creazione del Deutsche Mark (1948), rimasta nella memoria collettiva come il momento della rifondazione tedesca.
Come l’arbitro non partecipa al gioco, allo stesso modo lo Stato è escluso dallo stadio dell’economia. In ogni buona partita di calcio c’è una costante: le precise regole che presidiano il gioco. La mia politica liberale è appunto quella di creare le regole del gioco.
In conformità ai precetti di Eucken, Erhard era riluttante a intervenire per mitigare gli effetti delle crisi economiche.
«Temeva che una politica congiunturale, focalizzata sul pieno-impiego a discapito di ogni altro aspetto, sarebbe andata a detrimento della stabilità monetaria e a prezzo di una minore libertà individuale» (Hans Tietmeyer, presidente della Bundesbank tra il 1993 e il 1999).
L’ordopolitica conosce l’apoteosi nel 1957, quando Erhard fa votare due leggi decisive: quella sull’indipendenza della Bundesbank e quella contro le limitazioni alla concorrenza. Stabilità monetaria e concorrenza perfetta, due assiomi che – in quanto tali – nel modello dell’economia sociale di mercato si sottraggono al dibattito democratico.
Dal 1948 Erhard si circonda di esperti ordoliberisti (Eucken, Boehm, Müller-Armack). Il ministero dell’economia è loro riserva di caccia. L’ordoliberismo dispone inoltre di potenti casse di risonanza. Una rivista teorica, Ordo; una lobby incaricata di promuovere la dottrina attraverso i giornali, primo fra tutti l’influente FAZ; un movimento industriale cattolico che si autodefinisce “Comunità per la promozione dell’uguaglianza sociale” e che per diversi anni finanzierà campagne d’opinione in occasione delle elezioni.
Con la nozione di economia sociale di mercato e lo slogan “prosperità per tutti” offre alla giovane Unione Cristiano-Democratica (CDU) l’occasione di confrontarsi sullo stesso terreno dei socialdemocratici. A partire dal 1949 la CDU diventa alfiere di una società «il cui ordine si realizza grazie alla libertà e al rispetto degli impegni che si esprimono nell’economia sociale di mercato, attraverso la concorrenza autentica e il controllo dei monopoli».
Alcuni intellettuali del Partito Socialdemocratico (SPD) iniziano a subirne la cattura cognitiva. Nel 1955 Karl Schiller pubblica Socialismo e concorrenza, dove appare il celebre aforisma «concorrenza quanto possibile, pianificazione quanto necessario». La formula viene ripresa dallo stesso SPD al momento della grande svolta del novembre 1959, quando al congresso di Bad Godesberg la maggioranza dei delegati riconosce che la proprietà privata dei mezzi di produzione e l’economia di mercato sono alla base del progresso economico e del benessere sociale.
La caduta di Erhard nel 1966 segna una ripresa d’attenzione verso l’aspetto sociale, che si accentua con l’arrivo al potere del socialdemocratico Willy Brandt. Alle influenze ordoliberiste e bismarckiane si aggiunge una prospettiva keynesiana: pianificazione a medio termine, innalzamento dei salari, rinforzamento della cogestione, investimenti in eduzione e salute. La Repubblica Federale degli anni 1970-1980 segue un modello che proclama la sua adesione all’economia sociale di mercato ma incorpora una buona dose di interventismo statale.
La parentesi viene chiusa nel 1982, con l’ascesa al potere della CDU di Helmut Kohl. È di nuovo il tempo degli equilibri di bilancio, ma i costi dell’unificazione tedesca impediranno negli anni ’90 il ritorno ai fondamentali dell’ordoliberismo. Tocca al socialdemocratico Schröder, 1998, di restaurare l’ordine degli anni ’50 con la massiccia deregolamentazione del diritto del lavoro e l’indebolimento dello stato sociale.
Misure poi confermate dall’attuale cancelliere, Angela Merkel, che nel 2014 ha tenuto a ricordare che «l’economia sociale di mercato è molto più di un ordine economico e sociale. I suoi principi sono intramontabili».
Dai conservatori ai liberali, fino ai socialdemocratici e ai verdi, passando per il partito di estrema destra AfD, tutti i partiti tedeschi allignano nei loro ranghi molti nipotini di Eucken, ognuno dei quali denuncia il travisamento della dottrina da parte degli avversari. «Sono un ordoliberista, ma di sinistra», dice di sé il deputato dei verdi Gerhard Schick, che in nessun caso si dichiarerebbe neoliberista:
Tra i Verdi, la locuzione “economia sociale di mercato” fa consenso, anche se noi vi aggiungeremmo il termine “ecologico”. Trovo importante che lo stato stabilisca le regole perché la concorrenza funzioni.
L’ex deputato della Linke e professore di economia Herbert Schui sottolinea che l’economia sociale di mercato
è un concetto suggestivo, inventato nel dopoguerra per allontanare la popolazione dalle idee socialiste. La formula ha funzionato così bene che molti a sinistra se ne lasciano affascinare.
La confederazione sindacale tedesca (DGB) l’ha adottata nel 1996. «L’economia sociale di mercato ha prodotto un alto livello di prosperità materiale» e rappresenta «un grande progresso storico nei confronti del capitalismo selvaggio» come viene dichiarato nel loro programma fondativo, mai cambiato da allora. Tuttavia riconosce che questo sistema «non ha impedito né la disoccupazione di massa né lo spreco delle risorse, e non ha prodotto l’uguaglianza sociale».
Mentre una parte della sinistra tedesca vede nella dottrina ordoliberista una forma di interventismo da opporre al neoliberismo, la confederazione industriale l’associa a un’economia di mercato strettamente liberista. Una serie di organismi che condividono questa visione forniscono al pensiero ordoliberista una camera di risonanza polifonica. Il think-tank “Iniziativa per una nuova economia sociale di mercato”, già presieduto da Tietmeyer, si batte contro il sostegno pubblico alle energie rinnovabili, contro l’imposta patrimoniale o ancora contro il salario minimo legale introdotto nel 2015. L’istituto continua a influenzare il pensiero economico sessant’anni dopo la sua creazione. Un istituto più recente, l’“Alleanza di Jena”, offre ogni anno un premio per l’innovazione nell’ordopolitica, mentre il Kronberger Kreis, circolo di economisti di ispirazione ordoliberista, si vanta di fornire ai governi «il pensiero per le riforme indispensabili».
L’ordopolitica dispone di appoggi anche nella Chiesa, nella persona dell’arcivescovo di Monaco e presidente della Conferenza episcopale tedesca, monsignor Reinhard Marx.
Ma la voce più influente dell’ordopolitica è il Consiglio tedesco degli esperti economici, creato nel 1963 da Erhard per corroborare le scelte del suo governo. Oggi, l’unico keynesiano dei cinque membri, Peter Bofinger, lamenta di trovarsi sempre solo contro quattro, qualunque sia l’argomento discusso. I suoi colleghi si dicono prima di tutto pragmatici. «Vediamo i vantaggi della teoria ordopolitica, ma a guardare meglio il nostro è un modello molto più articolato», spiega Lars Feld, professore all’università di Friburgo e presidente dell’Istituto Walter Eucken.
L’ordoliberismo in sé non comporta necessariamente austerità. Nel 2008, con il mio collega Clemens Fuest, abbiamo per esempio raccomandato di allestire un programma di sostegno alla crescita dopo la crisi finanziaria. Ma abbiamo aggiunto «se temete che queste misure penalizzino in seguito le vostre condizioni di rifinanziamento sui mercati, allora introducete un freno all’indebitamento», la regola budgetaria. Il governo ha seguito le nostre raccomandazioni alla lettera.
Quale che sia l’interpretazione tedesca, l’ideologia ordoliberista si è trasmessa per fatale osmosi nelle strutture dell’Unione europea nella sua forma più autentica. «Tutto il quadro di Maastricht riflette i principi centrali dell’ordoliberismo e dell’economia sociale di mercato«», riconosce volentieri il presidente della Bundesbank Jens Weidmann (11 febbraio 2013, conferenza di Friburgo). E in effetti, con il suo riferimento allo «sviluppo durevole dell’Europa fondato su una crescita economica equilibrata e sulla stabilità dei prezzi in un’economia sociale di mercato fortemente competitiva», l’articolo 2.3 del Trattato di Lisbona, in vigore dal 2009, sembra copiato da un discorso di Erhard.
Non è un caso: la maggior parte dei politici e funzionari tedeschi che hanno partecipato alla istituzione del mercato comune negli anni ’50 aderivano al pensiero di Eucken. Gli alti funzionari delle istituzioni europee hanno riprodotto a scala comunitaria le strategie di Erhard e del suo comitato di esperti della Germania Federale occupata. Attori di un organismo privo di legittimità, si sono concentrati sull’elaborazione di un quadro giuridico della concorrenza e della stabilità monetaria, una preoccupazione che le potenze occupanti, in tempi di piena guerra fredda, giudicavano politicamente secondaria.
Agli esordi, nel 1950, l’edificio europeo nasceva fra due visioni dottrinali antitetiche.
Una, quella francese, intervenzionista e pianificatrice, che prevedeva la sovvenzione di larghe zone d’eccezione nel quadro della concorrenza (la politica agricola comunitaria, le eccellenze nazionali), e vedeva nel mercato interno europeo una protezione nei confronti del libero scambio mondiale.
L’altra, tedesca e ordoliberale, spingeva non solo per stabilire un mercato unico comunitario ma anche per procedere all’abbattimento delle barriere doganali a livello di “mondo libero”. Nel 1956, il cancelliere Erhard auspicava l’avvio di un grande mercato transatlantico.
L’approccio francese, dominante negli anni 1960 e 1970, non resiste alla deregolamentazione degli scambi internazionali, che implica rigore fiscale e competitività. Il 23 marzo 1983 François Mitterrand rinuncia in modo clamoroso alla politica di rottura per la quale è stato eletto, e decide di mantenere il franco legato allo SME e alla Germania. Questa scelta implica la messa in opera da parte della sinistra di un piano d’austerità simbolicamente paragonabile a quello che Alexis Tsipras ha dovuto ratificare nel luglio 2015.
«Sono diviso fra due ambizioni: quella della costruzione dell’Europa e quella della giustizia sociale», dirà Mitterrand il 10/2/1983 (riconoscendo implicitamente che le due opzioni erano incompatibili fra loro. La parabola di Mitterrand è anche simile a quella di Hollande, salito al potere con la promessa di rivoltare l’Europa come un calzino e in breve rivoltato come un calzino dall’Europa).
Venticinque anni dopo la caduta del muro di Berlino, la dottrina ordoliberista continua a esercitare la sua influenza sulle istituzioni europee. Ma il fortino ordoliberale più inespugnabile si trova a Francoforte: «La costituzione monetaria della BCE è fermamente ancorata nei principi dell’ordoliberismo», riconosce Mario Draghi (conferenza di Gerusalemme, 18/06/2013).
(Nota di colore: Mario Draghi è stato allievo del grande economista ed euroscettico Federico Caffè, con il quale si è laureato discutendo una tesi di laurea critica nei confronti del progetto europeo).
Il funzionamento della BCE, la sua indipendenza nei confronti delle istituzioni democratiche e degli Stati, la sua missione fondamentale di mantenere la stabilità dei prezzi, ricalcano in effetti i principi della Bundesbank. Non per niente il precedente presidente della BCE, Jean Claude Trichet, benché enarca francese, veniva presentato come «il più autentico rappresentante dello spirito e della pratica che ha retto la Bundesbank dalla sua creazione nel 1949 alla costituzione del sistema euro».
La battaglia ideologica è stata vinta in mancanza di avversari. In Europa, la bassa marea della sovranità popolari lascia apparire nella loro fredda efficacia le strutture del pilota automatico pazientemente messe in essere negli ufficio di Bruxelles e nelle torri di Francoforte, attraverso i trattati e i vari “compacts”.
Dieci giorni dopo il referendum greco, Hans-Werner Sinn, uno degli economisti più influenti della Germania, consigliere del ministro delle finanze e inflessibile rappresentante dell’ortodossia ordoliberista, affermava: «La crisi europea esclude le ricette keynesiane. Non si tratta di ordoliberismo, si tratta di economia». Il modello ideologico di Eucken si è trasformato in una gabbia di ferro.
Pubblicato sul blog dell’autore il 6 e 10 marzo.